Perché tutto questo?

domenica delle Palme

Domenica 5 aprile 2020

 

  • Prima lettura: Is 50, 4-7
  • Salmo: Sal 21
  • Seconda lettura: Fil 2, 6-11
  • Vangelo: Mt 26, 14-27,66

 

Quante volte abbiamo letto o sentito leggere la Passione! Alcuni l’hanno sentita varie volte e non si sono mai fatte delle domande. Altri, più attenti, si sono accorti che la Passione (la storia cioè delle ultime ore della vita di Gesù) non è affatto uguale per i quattro Evangelisti, che se concordano su molte fatti su altri discordano. Molte persone sentono il desiderio di farsi un’idea più chiara, storica (alla luce degli studi e delle conoscenze odierne). Ecco la possibilità di farsene un’idea: le cose sono andate così [1].

Vale la pena di leggere il tutto con calma, senza fretta, per far sedimentare dentro di noi ciò che leggiamo [2].

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[1] Si cita e si segue il libro J.A. Pagola, Gesù, Borla.

[2] La Settimana Santa è l’occasione giusta per leggere e per “stare” sulla Passione di Gesù. La lettura può essere un ottimo modo per prepararci a vivere con intensità e con consapevolezza la Grande Settimana, come la chiamano i nostri Padri. Ma è importante sapere storicamente cosa si vive, cosa si celebra e cosa di professa. Vi invito a leggere il tutto con calma, un po’ alla volta, senza fretta, lasciando entrare ciò che si legge.

 

Lunedì – Cosa possiamo sapere?

Dopo l’Ultima Cena e la lavanda dei piedi dove Gesù saluta i suoi, Gesù poté a malapena godere qualche ora di libertà dopo il suo commiato. Intorno alla mezzanotte venne catturato dalla polizia del tempio in un orto situato nella valle del Cèdron, ai piedi del monte degli Ulivi, dove si era ritirato per pregare. Uno che condannava pubblicamente il siste­ma del tempio e che parlava davanti a giudei venuti da tut­to il mondo di un «impero» che non era quello di Roma, non poteva continuare a muoversi liberamente nell’esplosivo ambiente delle feste di Pasqua.

Possiamo sapere che cosa avvenne negli ultimi giorni di Gesù? Un dato è certo: Gesù fu «condannato a morte du­rante il regno di Tiberio dal governatore Ponzio Pilato». Così ci informa Tacito, il celebre storico romano[1]. Lo stes­so afferma Giuseppe Flavio, aggiungendo dei dati di gran­de interesse: Gesù «attrasse molti giudei e molti di origine greca. E quando Pilato, a causa di un’accusa mossa dagli uomini più importanti fra di noi, lo condannò alla croce, coloro che prima lo avevano amato non cessarono di far­lo»[2]. Questi dati concordano con quanto sappiamo dalle fonti cristiane. Possiamo riassumerli così:

  • Gesù fu giusti­ziato su una croce;
  • la sentenza fu emessa dal governatore romano;
  • vi fu previamente un’accusa da parte delle auto­rità giudaiche;
  • venne crocifisso soltanto Gesù, nessuno si preoccupò di eliminare i suoi seguaci.

Ciò significa che Gesù venne considerato pericoloso perché, con il suo ope­rato e il suo messaggio, denunciava alla base il sistema vi­gente, ma né le autorità giudaiche né quelle romane vide­ro in lui il caporione di un gruppo di insorti; se fosse sta­to così avrebbero agito contro l’intero gruppo[3]. Era sufficiente eliminare il leader, ma bisognava farlo terrorizzan­do i suoi seguaci e simpatizzanti. Nulla poteva essere più efficace della sua pubblica crocifissione davanti alle folle che riempivano la città.

Come è noto, i Vangeli offrono della passione di Gesù una narrazione assai dettagliata[4]. Per utilizzare correttamente le loro informazioni dobbiamo però tener conto di diver­si aspetti. In primo luogo, non sappiamo chi abbia potu­to essere testimone diretto degli eventi: i discepoli fuggi­rono in Galilea; le donne hanno potuto osservare qualco­sa da una certa distanza ed essere testimoni degli eventi pubblici, ma chi ha potuto sapere come si siano svolti la conversazione fra Gesù e il sommo sacerdote o l’incontro con Pilato? Probabilmente, i primi cristiani avevano noti­zia del corso generale degli eventi (interrogatorio davanti alle autorità giudaiche, consegna a Pilato, crocifissione), ma non dei loro dettagli[5].

D’altra parte, il racconto della passione non somiglia ai rimanenti racconti evangelici, composti con piccole scene ed episodi trasmessi dalla tra­dizione. È un’ampia composizione che descrive la succes­sione di diversi fatti collegati fra loro[6]; tutto fa pensare che la redazione si debba al lavoro di «scribi» che narrano la passione cercando nelle sacre Scritture il significato pro­fondo dei fatti; quel che si osserva sullo sfondo del rac­conto non è tanto la trasmissione di alcune tradizioni quan­to il delicato lavoro di scribi esperti nel cercare nell’Antico Testamento dei testi che possano aiutare a cogliere il signi­ficato profondo dei fatti. Il problema consiste nel sapere se i racconti descrivano eventi reali illuminati da una ci­tazione biblica o se siano stati i testi biblici a portare lo scriba a «inventare» totalmente o in parte un determina­to episodio[7].

D’altra parte, è necessario tener conto delle tendenze che si avvertono in questi racconti e che la moderna ricerca sta precisando sempre con maggior rigore. È facile riassumerle in breve. Contro coloro che possono considerare gli even­ti della passione come sprovvisti di significato, questi scrit­ti si sforzano di mostrare, a volte in maniera artificiosa, che si sono provvidenzialmente compiuti i disegni di Dio[8]. È’ palese anche la tendenza sempre maggiore della tradi­zione a discolpare i romani, sottolineando l’innocenza di Pilato, mentre si insiste in maniera sempre più brutale nel colpevolizzare l’intero popolo giudaico per la crocifissione del Messia, Figlio di Dio[9].

Al tempo stesso, si avverte anche l’interesse nel presentare Gesù come il martire inno­cente, ingiustamente giustiziato dagli empi, ma riabilitato da Dio, seguendo uno schema ben noto nella tradizione giudaica; in questo modo, il crocifisso diventa modello esemplare per i cristiani che subiscono persecuzioni.

Non dobbiamo infine dimenticare la tendenza a sviluppare epi­sodi leggendari, che tanto piace ai racconti popolari[10].

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[1] Annali 15,44,3.

[2] Antichità giudaiche 18,3,3 (traduzione mia).

[3] Così avvenne intorno al 45 con Tèuda e i suoi seguaci, contro i qua­li il governatore C. Cuspio Fado inviò uno squadrone di cavalleria causando innumerevoli morti (Antichità giudaiche 20,98). Fra il 53 e il 55, Felice mandò i suoi soldati contro un profeta popolare detto l’Egiziano, uccidendone quattrocento seguaci (Antichità giudaiche 18,85-89).

[4] Marco 14-15; Matteo 26-27; Luca 22-23; Giovanni 18-19; Vangelo [apocrifo] di Pietro (frammento di un Vangelo perduto in cui si con­serva il racconto della passione a partire dall’intervento di Erode). Nessuno ha finora presentato una teoria che spieghi in maniera con­vincente la relazione fra questi scritti. In genere viene riconosciuta l’importanza di Marco come fonte di Matteo e di Luca. In concreto, Matteo lo segue molto da vicino, aggiungendo alcuni ritocchi; Luca ha un’originalità più marcata, e per questo alcuni ritengono che l’au­tore, oltre a utilizzare Marco, disponga anche di un’altra tradizione particolare. Si discute se Giovanni rappresenti o meno una fonte di­versa da Marco. Recentemente, J.D. Crossan ha ricostruito, in base al Vangelo [apocrifo] di Pietro, un breve testo che chiama Vangelo del­la croce, e che, secondo lui, sarebbe la fonte unica di tutti i racconti della passione che conosciamo. La sua ipotesi ha incontrato qualche eco soltanto fra membri del Jesus Seminar.

[5] È questa l’attuale opinione di non pochi autori (Sanders, Harvey, Reumann, Roloff, Schlosser…).

[6] Anche seguendo l’orario romano, Marco dice puntualmente quanto avviene «all’alba» (15,1), «all’ora sesta» (15,33), «all’ora nona» (15,34).

[7] Le due monografie sulla passione più recenti e accreditate riflettono la diversa sensibilità nella ricerca attuale: R.E. Brown tende a consi­derare i racconti come «storia ricordata» nelle comunità cristiana e infine chiarita con le citazioni degli scribi; J.D. Crossan, al contrario, pensa che i racconti siano per la maggior parte «profezia storicizza­ta», cioè composizioni degli scribi che non derivano dal ricordo di fat­ti concreti ma che sono state elaborate a partire dai testi biblici.

[8] Soprattutto Matteo offre citazioni esplicite o indicazioni implicite dell’Antico Testamento parlando della fuga dei discepoli, della rispo­sta data da Gesù al sommo sacerdote, delle trenta monete pagate a Giuda per il suo tradimento, delle grida del popolo che chiede la cro­cifissione di Gesù, delle beffe e degli scherni dei soldati, della bevanda offerta a Gesù sulla croce, della suddivisione delle sue vesti, della sua esecuzione fra due malfattori, del suo grido di lamento a Dio…

[9] Questo fatto, che è all’origine di tante persecuzioni contro gli ebrei, si deve alla circostanza che i cristiani, che si stanno diffondendo fra i gentili, non vogliono guadagnarsi l’ostilità di Roma presentandosi come eredi di qualcuno che dalle autorità romane era stato condan­nato come pericoloso per l’Impero; al tempo stesso, essi desiderano differenziarsi chiaramente dal resto dei giudei, che vengono perse­guitati da Roma dopo la caduta di Gerusalemme. Sebbene storica­mente sia stato Pilato a emettere la sentenza di morte, Luca lo presenta mentre proclama per tre volte l’innocenza di Gesù (23,4.14.22). Secondo Matteo, Pilato si dichiara «innocente» e si lava le mani (27,24). Giovanni lo presenta mentre consegna Gesù ai giudei affin­ché siano loro a crocifiggerlo (19,16). Al contrario, sebbene agli ini­zi Marco (14,1) parli soltanto della cospirazione dei sommi sacerdo­ti e degli scribi, Matteo (27,25) insiste sul fatto che è tutto il popolo a esigere la crocifissione di Gesù («il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli»). Secondo Giovanni, a chiedere la sua morte sono i «giudei» (18,31.38). Il «processo a Gesù» si trasforma più di una vol­ta in «processo ai giudei» (A. Marchadour).

[10] Pensiamo, per esempio, all’amputazione dell’orecchio di Malco (Giovanni 18,10), ai sogni della moglie di Pilato (Matteo 27,19) o al «campo di sangue» comprato con le trenta monete del tradimento (Matteo 27,3-10).

 

Martedì – Consegnato dalle autorità del tempio

A precipitare l’azione contro Gesù è indubbiamente l’inci­dente del tempio. Non viene immediatamente arrestato per­ché conveniva che l’operazione avesse luogo senza provo­care un alterco tra le folle, ma il sommo sacerdote non di­mentica Gesù[1]. L’ordine di arresto parte sicuramente da lui, poiché ha la facoltà di prendere misure contro quanti provocano disordini nel recinto sacro. A irrompere nell’orto del Getsèmani sono le forze di sicurezza del tempio, non i soldati romani della torre Antonia[2]. Arrivano debitamente armati, e il loro scopo è quello di catturare Gesù per condurlo alla presenza del sommo sacerdote Caifa.

A quan­to sembra, le forze del tempio ottennero degli aiuti per identificare Gesù e, soprattutto, per localizzarlo e arrestarlo in maniera discreta. Le fonti ci dicono che fu Giuda, uno dei Dodici, a prestare la propria collaborazione. Il dato sembra storico, per quanto la scena del pubblico bacio da­to a Gesù sia stata probabilmente creata per porre in mag­gior risalto l’infamia del suo operato[3].

Quando Gesù vie­ne arrestato, i discepoli fuggono spaventati in Galilea; a Gerusalemme rimangono soltanto alcune donne, forse per­ché corrono minor pericolo. La fuga dei discepoli appare come l’istintiva reazione di quanti cercano di salvarsi la vi­ta; non c’è motivo di considerarla come una repentina per­dita di fede in Gesù[4].

Gesù fu condotto a casa di Caifa, l’uomo forte di Gerusa­lemme negli anni trenta[5]. Non era soltanto il sommo sacer­dote che governava il tempio e la città santa, bensì la mas­sima autorità del popolo giudaico disperso in tutto l’Impero. Presiedeva il Sinedrio, e rappresentava il popolo d’Israele davanti al potere supremo di Roma. Senza dubbio, si trattò di un uomo estremamente abile. Il suo matrimonio con una figlia di Anna gli aveva consentito di imparentarsi con la famiglia sacerdotale più potente di Gerusalemme. Contando sull’aiuto del suocero, riuscì ad essere nominato sommo sa­cerdote da Valerio Grato nell’anno 18. Quando, al termine di otto anni, Grato venne sostituito da Ponzio Pilato, Caifa ottenne di essere confermato nella sua carica dal nuovo prefetto, fino a quando entrambi, nel 36, furono destituiti da Vitellio, governatore della provincia romana di Siria. Erano trascorsi diciotto anni; nessun altro riuscì a mante­nere per tanto tempo la sua carica di sommo sacerdote sot­to il mandato di Roma[6].

Alle spalle di Caifa si muoveva un potente clan, che do­minò la scena religiosa e politica di Gerusalemme per tut­ta la vita di Gesù: la famiglia degli Anna, i Ben Hanin. Anna, loro fondatore, era stato sommo sacerdote per molti anni. Nominato da Quirino nell’anno 6, agli inizi dell’occupazio­ne romana, lasciò il suo incarico nel 15, ma non per que­sto perse la propria influenza e potere. Amico personale di Valerio Grato e Ponzio Pilato, ottenne che cinque dei suoi figli, un nipote e soprattutto suo genero Giuseppe Caifa gli succedessero al potere. Il clan sacerdotale degli Anna la­sciò nella tradizione giudaica il ricordo di una famiglia ra­pace, che usava ogni sorta di intrighi, pressioni e macchi­nazioni per accaparrare per i suoi membri le cariche più influenti e redditizie del tempio[7]. I Ben Hanin erano la fa­miglia più potente e ricca dell’aristocrazia sacerdotale, e i loro membri principali vivevano nel quartiere residenzia­le dei sacerdoti, nella parte più alta della città, non lonta­no dal palazzo in cui risiedeva Pilato durante la sua per­manenza a Gerusalemme[8].

Vi sono sempre meno dubbi circa le buone relazioni e la stretta collaborazione che vi furono fra Caifa e Pilato. Non dobbiamo dimenticare che i sommi sacerdoti erano scelti dal prefetto non per la loro pietà religiosa, bensì per la lo­ro disponibilità a collaborare con Roma; da parte loro, i sommi sacerdoti procuravano, in genere, di piegarsi a una «prudente» collaborazione che permettesse loro di con­servarsi al potere per molto tempo. Il caso di Caifa è un esempio palpabile. Non reagì in favore del popolo in nes­suna delle occasioni in cui quest’ultimo si sollevò adirato contro Pilato: prima, per aver introdotto nella città santa gli stendardi imperiali e, più tardi, quando si impadronì del tesoro del tempio per costruire un acquedotto. In abi­le modo riuscì a eludere i conflitti e a conservare la sua ca­rica presso Pilato. Cadde soltanto quando Vitellio, gover­natore romano di Siria, ordinò a Pilato di rientrare a Roma per render conto della sua gestione davanti all’imperatore, mentre nello stesso tempo Caifa veniva destituito dalla sua carica di sommo sacerdote[9].

Cosa avvenne in quell’ultima notte che Gesù passò sulla terra, arrestato dalle forze di sicurezza del tempio? Non è affatto facile ricostruire i fatti, poiché le fonti offrono ver­sioni notevolmente diverse[10]. In genere, i racconti danno l’impressione che si sia trattato di una notte confusa. D’altra parte, è possibile che neppure gli evangelisti conoscessero con precisione le relazioni esistenti tra i sacerdoti dirigen­ti, gli anziani, gli scribi e il Sinedrio[11]. Quel che possiamo invece concludere è che vi fu un confronto fra Gesù e le autorità giudaiche che avevano ordinato di arrestarlo, e che il sommo sacerdote Caifa e la classe sacerdotale diri­gente ebbero un ruolo di rilievo. Gli autori più recenti van­no avvicinando le loro posizioni verso una fondamentale ricostruzione dei fatti[12].

Secondo Marco, il Sinedrio si riunisce durante la notte e condanna solennemente Gesù per essersi proclamato Mes­sia e Figlio di Dio, e per essersi arrogato la pretesa di veni­re un giorno sulle nubi del ciclo, seduto alla destra di Dio. Secondo il racconto, l’atteggiamento di Gesù provoca lo scandalo del sommo sacerdote, che grida d’orrore. Quel pover’uomo che sta lì legato davanti a loro non è il Messia né il Figlio di Dio: è un blasfemo! Il verdetto del Sinedrio è unanime: «Reo di morte». In realtà, tutto fa pensare che tale comparsa di Gesù davanti al Sinedrio giudaico non ab­bia mai avuto luogo. Probabilmente, questa drammatica scena è una composizione cristiana posteriore, elaborata per mostrare che Gesù è morto sulla croce a causa dei ti­toli di «Messia» e «Figlio di Dio» che i cristiani gli attri­buiscono e che tanto scandalizzano i giudei[13].

Un’istituzione somigliante al Sinedrio, che la mishnàh de­scrive anni più tardi, esisteva già probabilmente ai tempi di Gesù, ma non aveva certamente il potere di emettere sen­tenze di morte, o almeno non quello di eseguirle. Oggi sap­piamo che Roma non lasciava mai questa competenza (ius gladii) in mano alle autorità locali[14]. D’altra parte, il «pro­cesso» davanti al Sinedrio, così come appare nei Vangeli, contraddice quanto possiamo sapere dalla mishnàh, che, descrivendo il funzionamento del Sinedrio, dice che le riu­nioni sono proibite nei giorni festivi o di preparazione, non possono essere tenute di notte e devono aver luogo nell’a­trio del tempio e non nel palazzo del sommo sacerdote. In quella notte non si tenne dunque una sessione ufficiale del Sinedrio, e tanto meno un processo in piena regola da parte delle autorità giudaiche, bensì una riunione infor­male di un consiglio privato di Caifa per compiere le de­bite indagini e precisare meglio i termini in cui si sarebbe potuta porre la questione dinanzi a Pilato[15]. Una volta ar­restato Gesù, quel che preoccupa è mettere a punto l’ac­cusa che sarebbe stata portata il mattino dopo al prefetto romano: è necessario raccogliere contro di lui capi d’ac­cusa che meritino la pena capitale[16]. Non è possibile sape­re chi siano stati coloro che quella notte interrogarono Gesù. Probabilmente si trattò di un gruppo ristretto in cui ebbero un ruolo di risalto Caifa, sommo sacerdote in ca­rica, suo suocero Anna, sommo sacerdote in precedenza e capo del clan, ed altri membri della sua famiglia[17].

La decisione di eliminare Gesù sembra esser stata presa fin dall’inizio, ma quali sono i motivi reali che spingono questo gruppo di dirigenti giudei a condannarlo? Non si parla mai del suo atteggiamento nei confronti della Torà, della sua critica alle «tradizioni degli antichi», della sua ac­coglienza verso i peccatori o delle guarigioni compiute di sabato. Questo tipo di questioni era stato motivo di conflit­to e discussione fra Gesù e alcuni settori farisei, ma nes­sun gruppo giudaico assumeva misure punitive contro membri di altri gruppi perché difendevano posizioni di­verse dalle loro[18]. A questo consiglio di Caifa, il gruppo fa­riseo non prende parte in quanto tale e, d’altro lato, a preoc­cupare realmente sono le ripercussioni politiche che l’o­perato di Gesù può avere.

Sebbene secondo il racconto, Gesù sia condannato come «blasfemo» per essersi proclamato «Messia», «Figlio di Dio» e «Figlio dell’uomo», la combinazione di questi tre grandi titoli cristologici che costituivano il nucleo della fede in Gesù, espressa nel linguaggio cristiano degli anni sessan­ta, ci indica che ci troviamo davanti a una scena che diffi­cilmente può essere storica. Gesù non viene condannato per nulla di ciò. Il titolo «Figlio di Dio», nella cultura mo­noteista del popolo giudaico è un titolo messianico che non esprime ancora esplicitamente il significato che acquisterà più tardi, quando i cristiani confesseranno la condizione divina di Gesù. Non viene condannato neppure per la sua pretesa di essere il «Messia» atteso. È possibile che qual­cuno dei suoi seguaci abbia visto in lui il Messia e ne ab­bia fatto correr la voce fra la gente, ma, a quanto sembra, Gesù non si è mai pronunciato apertamente sulla propria persona. Alla questione della sua messianicità rispondeva in maniera ambigua, senza né affermarla né negarla, in parte perché aveva la propria concezione di quanto dove­va fare come profeta del regno di Dio, in parte perché lasciava nelle mani del Padre la manifestazione definitiva del regno e della sua persona. Comunque, sappiamo che, fin dal ritorno di Israele dall’esilio, vi furono molti che si pre­sentarono con la pretesa di essere il «Messia» di Dio, sen­za che le autorità giudaiche si sentissero tenute a perse­guitarli. Non si conosce il caso di nessun pretendente mes­sianico giudicato in nome della legge o considerato be­stemmiatore contro Dio. Anzi, quando nell’anno 132 Bar Koshbàh si presentò come Messia per capeggiare la solle­vazione contro Roma, fu riconosciuto solennemente come tale da Rabbì Aqiba, il rabbino più prestigioso dell’epoca. Se qualcuno si presentava come «Messia», poteva essere accettato o respinto, ma non veniva condannato come bla­sfemo.

Naturalmente, nessuno di coloro che prendono parte a que­sto interrogatorio pensa che Gesù sia il Messia; quel che davvero li preoccupa non è chiarire la sua identità; essi lo vedono come un falso profeta che sta diventando un peri­colo per tutti. Presentarsi come «Messia» non è una «be­stemmia», però è qualcosa di politicamente esplosivo, che può offrire un motivo per accusarlo davanti a Roma, so­prattutto perché il suo atteggiamento nella capitale comin­cia a costituire una minaccia per la stabilità del sistema. L’attacco al tempio è senza dubbio la causa principale del­l’ostilità delle autorità giudaiche contro Gesù e la ragione decisiva della sua consegna a Pilato. Il racconto cristiano non ha potuto nasconderlo[19]. Il gesto nel tempio è l’ultimo evento pubblico che Gesù realizza. Non lo si lascia più agi­re: il suo intervento nel recinto sacro costituisce una grave azione contro il «cuore» del sistema; il tempio è intoccabi­le; fin dai tempi di Geremia, le autorità avevano sempre rea­gito violentemente contro quanti osavano attaccarlo[20].

A trent’anni dall’esecuzione di Gesù avvenne a Gerusalem­me un episodio che getta non poca luce su quanto poté av­venire con lui. A informarci è Giuseppe Flavio. Proprio pri­ma dell’esplosione della prima grande rivolta contro Roma, un uomo strano e solitario chiamato Gesù, figlio di Ananìa, cominciò a percorrere le strade della città santa gridando giorno è notte: «Voce da oriente, voce da occidente, voce dai quattro venti, voce che va contro Gerusalemme e con­tro il tempio, voce contro i novelli sposi e le novelle spo­se, voce contro tutto il popolo». Alcuni dirigenti giudei lo arrestarono e punirono, ma, non riuscendo a far tacere le sue grida, lo «consegnarono» ad Albino, il governatore ro­mano, che ordinò di frustarlo crudelmente senza ottenere che l’uomo rispondesse alle sue domande; infine, ordinò di liberarlo considerandolo pazzo[21]. Gesù, figlio di Ananìa, non aveva seguaci né predicava al­cun programma. Era un eccentrico più o meno inoffensi­vo. Malgrado tutto, i dirigenti di Gerusalemme non esita­rono ad arrestarlo e a «consegnarlo» all’autorità romana.

La questione di Gesù di Nàzaret, leader di un gruppo di seguaci e che invita a «entrare nel regno di Dio», è assai più grave. Il suo operato contro il tempio costituisce una minaccia per l’ordine pubblico sufficientemente preoccu­pante perché egli venga consegnato al prefetto romano. Le questioni relative al tempio non lasciavano indifferenti i romani, come se si trattasse di semplici faccende religiose interne ai giudei. Il prefetto conosceva bene il potenziale pericolo che comportava qualunque alterazione dell’ordi­ne a Gerusalemme, soprattutto nel clima di Pasqua e con la città piena di giudei provenienti da tutto l’impero. Il con­siglio di Caifa prende la risoluzione di consegnare Gesù a Pilato. Quasi certamente, il prefetto romano lo giustizierà come un perturbatore indesiderabile.

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[1] Marco 14,1-2 ci informa di una cospirazione fra i sommi sacerdo­ti e gli scribi che, poiché mancano due giorni alla Pasqua, cercano il modo di catturare Gesù evitando la reazione del popolo. Può trattarsi di un fatto sicuro.

[2] Giovanni 18,3.12 parla della presenza di una «coorte», unità mili­tare costituita da seicento soldati. Il dato non merita il minimo cre­dito, non soltanto per il numero – evidentemente esagerato – di uo­mini, ma anche perché è impensabile che dei soldati romani condu­cano Gesù davanti al sommo sacerdote e non davanti al loro prefet­to. La scena descritta in 18,1-9 è stata composta da Giovanni per porre in risalto la signoria di Gesù, che, dicendo loro «io sono», li fa ca­dere tutti a terra.

[3] Non sembra legittimo dubitare dell’intervento di Giuda. Nella co­munità cristiana non si sarebbe inventata una simile tradizione, che aveva per protagonista uno dei Dodici (R.E. Brown). L’ipotesi secon­do cui la sua figura e la sua azione sono una semplice creazione di Marco per simboleggiare il tradimento del popolo giudaico (Giuda =Yehuda = Giudea/Giudei) non si basa su argomenti convincenti. J.D. Crossan stesso lo considera un personaggio reale, «seguace» di Gesù e che lo tradì (contro la posizione maggioritaria del Jesus Seminar).

[4] Marco 14,50. La fuga dei discepoli viene in genere considerata co­me un fatto reale. I dettagli del giovane che scappa nudo, o l’episo­dio di un discepolo (Pietro?) che taglia l’orecchio di un sommo sa­cerdote e la successiva guarigione compiuta da Gesù appartengono probabilmente al mondo della leggenda. Brown pensa tuttavia che«il taglio dell’orecchio» sia un dettaglio sconcertante e scandaloso conservato nella tradizione più antica.

[5] Secondo Giuseppe Flavio il suo nome completo era Yosef Caifas. In realtà, Caìafas è probabilmente un nomignolo scherzoso. Secondo alcuni autori proviene da qof («scimmia»), e rifletterebbe il senti­mento popolare, che vedeva in lui una «scimmia» nelle mani dei ro­mani, dei quali faceva il gioco; altri ritengono che derivi da kuf («for­zare») e significhi «randello» o «tiranno».

[6] Tanto Erode il Grande quanto i prefetti romani tendevano a cam­biare con grande frequenza – a volte ogni anno – i sommi sacerdoti. Riuscivano con ciò a impedire che il loro potere di consolidasse, e al tempo stesso se ne assicuravano meglio la sottomissione.

[7] Nell’anno 30 il «capo del clero», che vigilava sul culto e controlla­va le forze di sicurezza del tempio, era Gionata, un figlio di Anna e cognato di Caifa. Si ha motivo di sospettare che il commercio di ani­mali per i sacrifici fosse un redditizio affare controllato dalla fami­glia degli Anna (J. Jeremias); diversi membri del clan possedevano a Gerusalemme botteghe e gestivano affari.

[8] Gli scavi dell’archeologo israelita Nahman Avigad (1969-1980) han­no consentito di scoprire un palazzo che, in base a tutti gli indizi, avrebbe potuto essere quello della famiglia di Anna. Si tratta di un edificio lussuoso, decorato con affreschi e mosaici in stile romano, con una facciata che dava sul tempio e sul monte del Getsèmani; di­sponeva di un’ampia sala delle udienze, di quattro piscine per i ba­gni rituali e di tre piccole camere da letto (cubiculi). È probabile che tanto Valerio Grato quanto Ponzio Pilato, amici della famiglia, siano stati invitati a tavola in qualcuno di essi (J. Genot-Bismuth).

[9] Nel novembre del 1990, a sud della città vecchia di Gerusalemme venne scoperto uno splendido ossario di famiglia del I secolo, recante l’iscrizione: «Yehosef bar Caifas». Tutto fa pensare agli archeologi che ci troviamo in presenza dell’ossario del sommo sacerdote che inter­venne nell’esecuzione di Gesù (Greenhut, Reed).

[10] Secondo Marco, dal Getsèmani Gesù viene portato davanti al som­mo sacerdote; sono riuniti «tutti i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi», vale a dire i gruppi che costituiscono il Sinedrio. Essi giun­gono alla conclusione che Gesù è «reo di morte» (14,53-64). Il gior­no successivo, di mattina, si riuniscono nuovamente, ma soltanto per «legare» Gesù e «consegnarlo» a Pilato (15,1). Secondo Luca, durante la notte non ha luogo alcuna riunione; il Sinedrio si riunisce soltan­to la mattina seguente, ma la scena si conclude senza il minimo at­to giuridico (22,66-71); in seguito, conducono Gesù davanti a Pilato (23,1). Secondo Giovanni, Gesù viene condotto in casa di Anna, suo­cero di Caifa (18,13), che lo interroga «sui suoi discepoli e la sua dot­trina» e che poi lo manda, legato, casa di Caifa, dove non succede niente (18,24); infine, Gesù viene condotto nella residenza di Pilato (18,28); in quest’ultimo racconto il Sinedrio è completamente assen­te, e non vi è nulla che evochi la celebrazione di un processo da par­te della autorità giudaiche.

[11] È questa l’opinione di Sanders e altri.

[12] Seguo da vicino i lavori di ricercatori autorevoli come Brown, Theissen, Gnilka, Schlosser, Legasse, Lémonon, Rivkin, ecc.; escludo la posizione radicale di J.D. Crossan, che considera il processo da­vanti alle autorità giudaiche non come un fatto storico, bensì come una totale invenzione cristiana. Secondo lui, comunque, non è più possibile alcuna ricostruzione: l’arresto e l’esecuzione di un uomo co­me Gesù ha potuto aver luogo senza un processo così formale né da­vanti a Caifa né davanti a Pilato.

[13] Anche il Vangelo di Giovanni riflette la medesima sensibilità: «Non vogliamo lapidarti per nessuna opera buona, bensì per bestemmia, e perché tu, che sei uomo, fai di te stesso Dio» (10,33).

[14] Per molti anni si è discusso se il Sinedrio possedesse o meno lo ius gladii. Oggi si afferma, in maniera generale, che ai tempi di Gesù non avesse tale competenza. Gli argomenti decisivi sono stati presentati dall’esperto di storia romana A.N. Shervin- White.

[15] Brown pensa che vi sia stata una sessione formale del Sinedrio in cui venne decisa la morte di Gesù, ma che ebbe luogo molto prima del suo arresto (Giovanni 11,47-53; anche Marco 11,18). Anche lui ri­tiene che, in quest’ultima notte, abbia più senso un interrogatorio previo alla consegna di Gesù ai romani che non un intero processo notturno davanti al Sinedrio.

[16] Rivkin ha mostrato in maniera convincente che Gesù non venne condotto davanti al grande Sinedrio (bet din ha-migdol) bensì davanti al «consiglio privato» di Caifa, la cui funzione era quella di consi­gliarlo non in dottrine religione ma in questioni di governo dalle gra­vi ripercussioni politiche.

[17] Ricercatori come Brown e Lémonon sottolineano l’importanza che probabilmente ebbe l’astuto operato di Anna. Sarebbe abbastanza credibile l’osservazione di Giovanni, quando dice che Gesù fu con­dotto prima di tutto al palazzo di Anna, che «lo interrogò sui suoi di­scepoli e la sua dottrina», due questioni decisive per determinare la pericolosità di Gesù (Giovanni 18,12.19).

[18] 28 A quanto sembra, il principio che regolava le relazioni fra i diver­si gruppi giudaici (sadducei, farisei, esseni) era «vivi e lascia vivere» (Rivkin).

[19] Nelle fonti cristiane, l’attacco al tempio come causa dell’ostilità con­tro Gesù non scompare mai dall’orizzonte. Marco lo ricorda nella sce­na davanti al sommo sacerdote (14,57-58); poi compare nelle beffe rivolte al crocifisso (Marco 15,29-30 // Matteo 27,39-40); viene ricor­dato nell’accusa contro Stefano (Atti degli Apostoli 6,13-14).

[20] Intorno al 610 a.C. il profeta Geremia entrò nel cortile del tempio e lanciò contro quel luogo santo la maledizione che Dio gli aveva or­dinato di pronunciare. Immediatamente i sacerdoti e i profeti, e tut­to il popolo, lo arrestarono dicendo: «A morte!». Soltanto a stento Geremia riuscì a salvarsi la vita (Geremia 26,1-19).

[21] Guerra giudaica VI,300-309.

 

Mercoledì – Condannato a morte da Roma

Ponzio Pilato era sbarcato a Cesarea Marittima nell’anno 26. Nominato da Tiberio prefetto della Giudea[1], veniva a prender possesso della sua carica. Apparteneva alla picco­la nobiltà dell’ordine equestre, non alla classe senatoria più aristocratica: agli occhi dei suoi superiori, era un uomo che doveva «far carriera». Pilato risiedeva normalmente nel suo palazzo di Cesarea, a un centinaio di chilometri da Gerusalemme, ma durante le più importanti feste giudaiche saliva a capo delle truppe ausiliarie fino alla città san­ta per controllare la situazione. A Gerusalemme risiedeva nel palazzo-fortezza costruito da Erode il Grande nel luo­go più alto della città. Spiccava sugli altri edifici per le sue tre immense torri, innalzate per difendere la parte alta di Gerusalemme. Flavio Giuseppe dice che il palazzo era inde­scrivibile quanto a lusso e stravaganza. Qui si incontrano una mattina di aprile dell’anno 30 un reo con le mani le­gate e indifeso, chiamato Gesù di Nàzaret, e il rappresen­tante del più possente sistema imperiale che la storia ab­bia conosciuto[2].

Non è facile farsi un’idea chiara della personalità di Pilato. Se ascoltiamo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, Pilato è un personaggio ben noto per le sue «corruzioni, in­giurie, furti, violenze, danneggiamenti ingiustificati, conti­nue esecuzioni senza processo e una crudeltà incessante e assai deplorevole»[3]. Se ci atteniamo ad altre informazioni, Pilato non fu probabilmente né più né meno crudele degli altri governatori romani: tutti usavano e abusavano del lo­ro potere per giustiziare impunemente quanti considerava­no pericolosi per l’ordine pubblico. Da Giuseppe Flavio co­nosciamo alcuni incidenti causati da Pilato, nei quali si mo­stra la sua mancanza di tatto, il suo poco riguardo per la sensibilità religiosa del popolo giudaico e anche la sua ca­pacità di far uso di mezzi brutali per controllare le masse. Tuttavia, il suo atteggiamento non è sempre lo stesso. Il primo episodio grave si verificò all’inizio della sua prefettura, quando una gran folla, irritata perché egli aveva introdotto nottetempo a Gerusalemme degli stendardi mi­litari con il busto dell’imperatore, si trasferì fino a Cesarea, circondò la sua residenza e lì resistette per cinque giorni e cinque notti, esigendo dal prefetto che gli emblemi ve­nissero ritirati. Pilato li convocò nel grande stadio, a sor­presa li circondò con i suoi soldati e minacciò di sgozzar­li tutti se non avessero desistito dalla loro protesta. Quando i soldati sguainarono le spade, i giudei presentarono i lo­ro colli nudi, disposti a perdere la vita prima di permette­re la trasgressione della legge. Pilato rimase sconcertato. Quel comportamento pacifico, coerente e disciplinato lo disarmò. Considerò prudente cedere alle loro domande e ritirare gli stendardi[4]. Questo prefetto non sembra un de­spota senza pietà. Sa cedere; forse è persino debole davanti alla pressione. Getta questo un po’ di luce sull’operato di Pilato, che, secondo i Vangeli, cede davanti alla coazione delle autorità giudaiche e della folla, finendo col condan­nare Gesù?

Anni dopo, Pilato agì invece in maniera ben diversa. Aveva deciso di costruire un acquedotto di una cinquantina di chilometri, per portare acqua dalla zona di Betlemme fino a Gerusalemme. Trattandosi di un’opera pubblica di inte­resse generale, si sentì in diritto di utilizzare il tesoro del tempio, denaro che veniva considerato korbàn, cioè con­sacrato a Dio. Tuttavia, approfittando di una delle sue vi­site a Gerusalemme, una gran folla circondò il suo palaz­zo e cominciò a gridare contro di lui. Questa volta Pilato non cedette. Introdusse fra la gente dei soldati vestiti in abiti civili, con l’ordine di non usare la spada, ma di pren­dere i manifestanti a colpi di bastone. Secondo Giuseppe Flavio furono molti a morire: alcuni a causa delle ferite ri­cevute, altri schiacciati durante la fuga[5]. Nell’anno 36 il suo operato fu molto più brutale. Un profeta samaritano aveva convocato tutto il popolo per salire sul monte Garizim, e mostrar loro il luogo in cui Mosè aveva deposita­to i vasi sacri. Preoccupato del loro fanatismo, Pilato vol­le impedirlo con le sue forze di cavalleria e fanteria. Nello scontro, alcuni samaritani morirono, molti caddero prigionieri e i dirigenti vennero giustiziati[6]. Si trattò del suo ultimo intervento. Vitellio, legato di Siria, ascoltò le prote­ste dei samaritani e ordinò al prefetto di tornare a Roma per render conto del suo operato all’imperatore. Pilato finì i suoi giorni esiliato nelle Gallie (Vienne). Probabilmente non era stato un uomo così sanguinario e malvagio come lo descrive Filone d’Alessandria, ma fu certamente un go­vernatore che non esitava a far ricorso a metodi brutali e sbrigativi per risolvere i conflitti.

Giungendo in Giudea, aveva trovato Caifa insediato nella dignità di sommo sacerdote dal precedente prefetto, Vale­rio Grato. Pilato lo confermò nell’incarico e ve lo manten­ne fino a quando entrambi vennero destituiti nell’anno 36/37. A quanto sembra, trovò in Caifa un valido collabo­ratore che seppe appoggiarlo o, almeno, non prese posi­zione contro di lui nei momenti critici nei quali il suo ope­rato provocò proteste popolari[7]. Non è strano che i ri­cercatori sospettino sempre di più che abbia potuto es­servi una buona intesa e persino una certa «complicità» fra Caifa e Pilato nella soluzione del problema che Gesù poneva a entrambi.

Che cosa è realmente accaduto? I Vangeli ci fanno a mala pena conoscere alcuni dettagli legali del processo a Gesù davanti a Pilato. Non è questo lo scopo del loro racconto. D’altra parte, non sembrano neppure avere una conoscen­za precisa di quel che avvenne nel palazzo del prefetto[8].

Concordano però con quanto sappiamo da altre fonti non cristiane. Fu Pilato a emettere la sentenza di morte e a or­dinare di crocifiggere Gesù; lo fece, in buona parte, per istigazione delle autorità del tempio e dei membri delle po­tenti famiglie della capitale. Questo è il dato storico più certo: Gesù viene giustiziato da soldati agli ordini di Pilato, ma all’origine di questa esecuzione si trova il sommo sa­cerdote Caifa, assistito da membri dell’aristocrazia sacer­dotale di Gerusalemme[9].

Ma vi fu realmente un processo davanti al prefetto roma­no? Pilato avrebbe potuto giustiziare senz’altro quel pelle­grino Galileo, senza attenersi a tante formalità. Il suo mo­do di agire non si distingueva particolarmente per indole umanitaria. Questo è quello che pensano coloro i quali dal carattere ingenuo della narrazione, dalla futilità delle ac­cuse e dall’episodio leggendario di Barabba sono portati a sospettare che ci troviamo in presenza di una composi­zione cristiana e non di un’informazione storica[10]. In realtà, uno scetticismo così radicale non è giustificato; per quan­to perfetto o imperfetto possa essere stato, vi fu un pro­cesso durante il quale il prefetto romano ha condannato Gesù a essere giustiziato su una croce, con l’accusa di pre­tendere di presentarsi come «re dei giudei». Le fonti offrono indizi sufficienti e il testo della condanna collocato sul­la croce lo conferma[11].

Il giudizio ha luogo probabilmente nel palazzo in cui Pilato risiede quando si reca a Gerusalemme. È mattina presto. Secondo l’abitudine dei magistrati romani, il prefetto co­mincia ad amministrare la giustizia molto presto, dopo l’al­ba. Pilato occupa la sua sede nella tribuna dalla quale emet­te le sue sentenze[12]. Quella mattina diversi delinquenti at­tendono il verdetto del rappresentante del Cesare. Gesù compare con le mani legate; è uno tra gli altri; le autorità del tempio lo hanno portato fin qui. Quando viene il suo momento, Pilato non si limita a ratificare il processo o le indagini che Caifa ha potuto compiere. Non detta un exequatur, «si esegua». Tenta di trovare la sua personale manie­ra di prospettare il caso. Anche se Gesù è stato consegna­to come colpevole dalle autorità giudaiche, il prefetto in­tende assicurarsi da sé che quest’uomo debba essere giu­stiziato: è lui a imporre la giustizia dell’Impero. Pilato non agisce in maniera arbitraria. Per giudicare un caso come quello di Gesù in una provincia dell’Impero co­me la Giudea poteva scegliere fra due procedimenti vigenti in quel periodo. A quanto sembra, non agisce seguendo la prassi della coertio, che gli conferisce potestà assoluta per adottare, in un dato momento, tutte le misure che ritenga necessarie per mantenere l’ordine pubblico, compresa l’e­secuzione immediata; si trattava, in realtà, di un’azione ar­bitraria legalizzata. Da quanto possiamo sapere, egli fa piuttosto ricorso alla cognitio extra ordinem, che è la pras­si seguita normalmente in Giudea dai governatori roma­ni: una forma sbrigativa per amministrare la giustizia, in cui non si seguono tutti i passi richiesti nei processi ordinari[13]. È sufficiente attenersi all’essenziale: ascoltare l’ac­cusa, interrogare l’accusato, valutare la colpevolezza ed emettere la sentenza. A quanto sembra, nello svolgere la cognitio, Pilato agisce con grande libertà e in maniera molto personale. Ascolta gli accusatori, da la parola all’accusato e, prescindendo da ulteriori prove e indagini, incentra la questione su quanto ha davvero maggiore interesse per lui: l’eventuale pericolo di agitazione o insurrezione che questo uomo può rappresentare. Questa è la domanda che si ri­pete in tutte le fonti: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù cerca davvero di ergersi a re di questa provincia romana? Questa è una questione nuova. Non era stata posta con tale con­tenuto politico davanti alle autorità del tempio; nella pro­spettiva dell’Impero si tratta della domanda decisiva. Pilato, l’intervento di Gesù nel tempio e le discussioni che vi possono essere sulla sua condizione di autentico o falso profeta sono, in linea di principio, una questione interna dei giudei. Come prefetto dell’Impero, egli è più attento al­le ripercussioni politiche che il caso può avere. I profeti di questo genere, che destano fra la gente strane aspettative, possono alla lunga diventare pericolosi. D’altra parte gli at­tacchi contro il tempio sono sempre una questione delica­ta. Chi minaccia il sistema del tempio cerca di imporre qualche nuovo potere; le parole di Gesù contro il tempio e il suo recente gesto di minaccia possono scalzare il potere sacerdotale, all’epoca fedele a Roma ed elemento chiave nel mantenimento dell’ordine pubblico. La domanda del prefetto implica uno spostamento nell’ac­cusa. Se l’imputazione viene confermata, Gesù è perduto. Il titolo «re dei giudei» era pericoloso[14]. Erano stati i sa­cerdoti asmonei i primi ad attribuirsi questo titolo, pro­clamando l’indipendenza del popolo giudaico dopo la ri­bellione dei Maccabei (143-63 a.C.). Più tardi fu Erode il Grande (37-4 a.C.) ad essere chiamato «re dei giudei» per­ché tale lo nominò il Senato romano. Può qualcuno pen­sare realmente che Gesù stia cercando di ristabilire una monarchia come quella degli asmonei o quella di Erode il Grande? Quell’uomo non gira armato; non capeggia un movimento di insorti né predica un sollevamento frontale con­tro Roma. Tuttavia, le sue fantasie sull’«impero di Dio», la sua critica ai potenti, la sua ferma difesa dei settori più op­pressi e umiliati dell’Impero, la sua insistenza su un radi­cale cambiamento della situazione sono una palese esau­torazione dell’imperatore romano, del prefetto e del som­mo sacerdote designato dal prefetto: Dio non benedice quel­lo stato di cose. Gesù non è inoffensivo. Un ribelle contro Roma è sempre un ribelle, anche se la sua predicazione parla di Dio[15].

Di solito, a preoccupare maggiormente i governanti erano sempre le imprevedibili reazioni delle folle. Questo vale an­che per Pilato. È vero che Gesù non aveva seguaci armati, ma la sua parola attraeva la gente. Casi del genere anda­vano stroncati alla radice, prima che il conflitto acquistasse proporzioni maggiori. Non era necessario soffermarsi sul­le motivazioni religiose di questi visionari[16]. Quanto è av­venuto in quei giorni in una Gerusalemme stracolma di pellegrini giudei venuti da tutto l’Impero, nell’esplosivo am­biente delle feste di Pasqua, non promette niente di buo­no: Gesù ha osato sfidare pubblicamente il sistema del tem­pio e, a quanto sembra, alcuni pellegrini lo vanno acclaman­do per le strade della città; è in pericolo l’ordine pubblico: la pax romana[17].

Pilato considera Gesù abbastanza pericoloso da farlo spa­rire. È sufficiente giustiziare lui; i suoi seguaci non costituiscono un gruppo di insorti[18], ma è bene che la sua ese­cuzione serva di monito per quanti sognano di sfidare l’Impero. La crocifissione pubblica di Gesù davanti a quel­le grandi folle venute da tutte le parti era il supplizio per­fetto per terrorizzare quanti potevano nutrire qualche ten­tazione di sollevarsi contro Roma. Gli esperti discutono se la sentenza si basi sul delitto di perduellio, vale a dire se­dizione o grave attacco contro Roma, o piuttosto su quel­lo di crimen laesae maiestatis populi romani, vale a dire danno arrecato al prestigio del popolo romano e dei suoi mandatari. Poco importa, Gesù viene giustiziato perché pe­ricoloso[19].

La sua crocifissione non fu dunque un deplorevole errore né il risultato di uno sciagurato cumulo di circostanze: il profeta del regno di Dio viene giustiziato dal rappresen­tante dell’Impero romano su istigazione e iniziativa dell’a­ristocrazia locale del tempio. In Gesù gli uni e gli altri ve­dono un pericolo. Non si comportano in maniera partico­larmente mostruosa. Molte volte si procede così nei con­fronti di chi rappresenta una minaccia per gli interessi dei potenti. Tiberio nominava i suoi prefetti per assicurare il suo «impero» su tutte le province soggette a Roma. Pilato deve adempiere i suoi obblighi sopprimendo alla radice qualunque dissenso che possa mettere in pericolo l’ordine pubblico della Giudea. Caifa e il suo consiglio devono di­fendere il tempio e impedire che vi si intromettano dei «fa­natici» difficili da controllare. I soldati romani adempiono gli ordini. Probabilmente, parte della popolazione di Geru­salemme, che non conosce troppo bene Gesù e la cui vita dipende in buona parte dal funzionamento del tempio e dall’arrivo dei pellegrini, si lascia influenzare dai suoi di­rigenti e prende posizione contro Gesù[20]. I simpatizzanti hanno paura e tacciono; i suoi seguaci più vicini fuggono. Il profeta del regno di Dio rimane solo. Il motivo di fondo è chiaro.

Il regno di Dio difeso da Gesù mette in questione allo stesso tempo tutta quell’intelaiatu­ra di rapporti di Roma e il sistema del tempio. Fedeli al Dio del tempio, le autorità giudaiche si vedono costrette a reagire: Gesù disturba. Invoca Dio per difendere la vita de­gli ultimi. Caifa e i suoi lo invocano per difendere gli in­teressi del tempio. Condannano Gesù in nome del loro Dio, ma, nel farlo, condannano il Dio del regno, l’unico Dio vi­vente in cui Gesù crede. Lo stesso avviene con l’Impero di Roma. In quel sistema difeso da Pilato, Gesù non vede un mondo organizzato secondo il cuore di Dio. Egli difende i più dimenticati dell’Impero; Pilato protegge gli interessi di Roma. Il Dio di Gesù pensa agli ultimi; gli dèi dell’Impero proteggono la pax romana. Non si può essere, nello stesso tempo, amici di Gesù e del Cesare[21]; non si possono servi­re il Dio del regno e gli dèi di Roma, che sono dèi di sta­to. Le autorità giudaiche e il prefetto romano si sono mos­se per assicurare l’ordine e la sicurezza. Non è però sol­tanto una questione di politica pragmatica; in fondo, Gesù viene crocifisso perché il suo operato e il suo messaggio scuotono alla radice quel sistema organizzato al servizio dei più potenti dell’Impero romano e della religione del tempio. E Pilato a pronunciare la sentenza: «Andrai in cro­ce». Ma quella pena di morte è firmata da tutti coloro che, per motivi diversi, hanno opposto resistenza al suo appel­lo a «entrare nel regno di Dio»[22].

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[1] Forse fu nominato direttamente da Seiano, l’uomo cui Tiberio affidò le questioni ordinarie dell’Impero quando, in quell’epoca, si ri­tirò nella sua villa sull’isola di Capri. Se così fosse, la posizione di Pilato si sarebbe probabilmente assai indebolita quando Seiano per­se il favore di Tiberio e venne giustiziato, nell’ottobre del 31.

[2] Sebbene alcuni continuino a identificare il pretorio dove fu emes­sa la sentenza contro Gesù con la fortezza Antonia, sono sempre di più coloro che lo localizzano in questo palazzo.

[3] Ad Gaium 28,302. In genere, gli autori osservano che questo ritratto così negativo di Pilato è tendenzioso e di carattere retorico.

[4] Guerra giudaica 11,169-174; Antichità giudaiche 18,55-59.

[5] Guerra giudaica 11/175-177; Antichità giudaiche 18,60-62.

[6] Antichità giudaiche 18,85-89.

[7] Per la questione del tempio, Caifa non appoggiò la protesta popo­lare contro Pilato, probabilmente perché in precedenza gli aveva da­to il suo assenso a far uso del tesoro del tempio (McLaren). Per la strage dei samaritani era forse stato Caifa stesso a spingere Pilato ad agire, affinché il monte Garizim non facesse ombra al tempio di Dio in Gerusalemme (Brown).

[8] Secondo Marco (15,1-15), Gesù viene condotto davanti a Pilato che gli domanda se è lui il «re dei giudei». I sommi sacerdoti lo accusa­no di «molte cose», in maniera generica, mentre Gesù rimane in si­lenzio (1-5). In seguito si narra il tentativo di Pilato di sbloccare la situazione, liberando Gesù e condannando Barabba; davanti alle pres­sioni del popolo, che chiede la crocifissione di Gesù, Pilato cede e lo manda alla croce (6-15). Matteo (27,11-26) si ispira a Marco, ma ag­giunge due episodi che mancano di fondamento storico: il sogno del­la moglie di Pilato (19) e il gesto teatrale di lavarsi le mani, provo­cando la terribile auto maledizione del popolo giudaico: «II suo san­gue ricada su di noi e suoi nostri figli» (24-25). Luca (23,1-25) si distanzia notevolmente da Marco; presenta i sommi sacerdoti che ac­cusano Gesù di diverse imputazioni concrete (w. 2.5) e ci informa di una comparizione di Gesù davanti a Erode (6-12). Da parte sua, Giovanni offre un racconto assai ampio ed elaborato (18,28-19,16); si tratta di una costruzione artificiale in cui Pilato passa continua­mente dall’«interno» del palazzo, dove dialoga con Gesù, all’«esterno», dove parla con «i giudei»; per quanto offra dettagli interessanti per lo storico, la sua composizione è una «lezione di cristologia» che Pilato riceve da Gesù.

[9] Lo storico giudeo Giuseppe Flavio, nella sua opera Antichità giudaiche, comparsa intorno al 93 d.C., dice così parlando di Gesù: «Quando Pilato, a causa di un’accusa mossa dagli uomini più im­portanti fra di noi, lo condannò alla croce, coloro che prima lo ave­vano amato non cessarono di farlo» (18,3). Da parte sua, intorno al 116/117 lo storico romano P. Cornelio Tacito, spiegando l’origine dei cristiani, accusati da Nerone di aver incendiato Roma, afferma che «questo nome viene da Cristo, che fu giustiziato sotto Tiberio dal go­vernatore Ponzio Pilato» (Annali 15,44).

[10] È questa la posizione di J.D. Crossan e della maggioranza dei mem­bri del Jesus Seminar, che considerano il racconto come una crea­zione cristiana elaborata a partire dal Salmo 2.

[11] Così pensa la maggior parte dei ricercatori recenti, i quali affer­mano la storicità del processo romano contro Gesù basandosi sulle fonti evangeliche e sulle informazioni in nostro possesso circa la pras­si giuridica nell’Impero (Brown, Theissen, Rivkin, Gnilka, Lémonon, Bovon, Legasse, Schlosser, Roloff…). Nella mia ricostruzione dei fat­ti seguo soprattutto questi studi.

[12] Soltanto il Vangelo di Giovanni (19,13) parla di questa sede o «tri­bunale» (bèma) che Pilato occupa. La sua informazione è molto ve­rosimile. Probabilmente si innalza davanti alla piccola piazza pro­spiciente il suo palazzo, un luogo assai appropriato per un giudizio pubblico.

[13] Per esempio, nel processo contro Gesù non vi è un intervento del­la difesa.

[14] II significato reale è quello di «re di Giudea» (G. Soslayan).

[15] Luca rende più verosimile il racconto del processo introducendo contro Gesù accuse concrete: «Abbiamo trovato quest’uomo che met­teva in agitazione il nostro popolo, proibendo di pagare tributi al Cesare e dicendo di essere il Messia re» (23,2); «Solleva il popolo con il suo insegnamento per tutta la Giudea; dalla Galilea, dove ha co­minciato, fino a qui» (23,5).

[16] La decisione di Pilato davanti al caso di Gesù è molto simile a quel­la di Erode Antìpa nei confronti di Giovanni il Battista. Entrambi agi­scono per paura delle reazioni imprevedibili della gente, ed entrambi uccidono solo il leader e non i suoi seguaci.

[17] Luca dice che Gesù comparve anche davanti ad Antìpa (23,8-12). È difficile determinare il carattere storico di tale informazione. Pur essendo galileo, e pertanto suddito di Antìpa, Gesù avrebbe potuto essere giustiziato in qualsiasi momento in Giudea dal prefetto ro­mano. L’episodio è certamente una composizione cristiana elabora­ta partendo dal Salmo 2, per sottolineare ulteriormente l’innocenza di Gesù: «I re della terra si sollevano e i grandi cospirano fra di loro contro il Signore e contro il su Unto» (2,2).

[18] Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti attendere, ai seguaci di Gesù non capitò nulla; non solo, ma dopo la morte di Gesù venne loro permesso di formare una comunità nella stessa Gerusalemme. È chiaro che Roma non vide mai in Gesù l’organizzatore di un sol­levamento contro l’Impero (contrari, Brandon e Carmichael).

[19] L’innocenza di Pilato, proclamata in maniere diverse in tutti i Vangeli, non è credibile. Gli studi recenti ritengono che questa pre­sentazione volta a discolpare il prefetto romano non sia un dato sto­rico bensì «propaganda cristiana». Alla sua origine vi è la preoccu­pazione dei primi cristiani di non comparire nell’Impero come eredi di qualcuno che era stato condannato come una minaccia contro Roma. Nonostante ciò, Brown pensa che la teoria secondo la quale i Vangeli discolpano Pilato creando un personaggio totalmente fittizio pecchi di esagerazione.

[20] È difficile determinare il carattere storico dell’episodio di Barabba. Finora non si è potuto provare in base a documenti che esistesse l’a­bitudine di liberare un prigioniero per le feste di Pasqua (Brown, Crossan, Theissen, Gnilka, Schlosser, Bovon). Per questo alcuni ri­tengono che l’episodio sia stato creato da Marco per simboleggiare con forza drammatica l’ingiustizia commessa nei confronti di Gesù (Crossan, Jesus Seminar). Altri ritengono che sia realmente esistito un uomo di nome Barabba che, dopo esser stato incarcerato a cau­sa di una sommossa, venne più tardi messo in libertà da Pilato. Quando Gesù venne condannato, i cristiani cominciarono a ricorda­re con ironia quanto era avvenuto a Gerusalemme: il «criminale» che aveva preso parte a una ribellione era stato liberato, mentre l’«innocente» che non aveva mai aggredito nessuno era stato giustiziato (Brown). È verosimile che nel processo vi sia stato qualche gruppo ostile a Gesù che avesse accompagnato i dirigenti del tempio (Brown, Theissen, Bovon, Legasse, Gnilka, Schlosser). Non si tratta di una «acclamazione» (acclamatio), come se essi avessero avuto voce e vo­to in giudizio, bensì di una pressione popolare. Il terribile grido «cro­cifiggilo», più volte ripetuto, è una deplorevole drammatizzazione ideata nelle comunità cristiane contro i giudei della sinagoga. In quei primi momenti del cristianesimo si trattava di un’invenzione relati­vamente ingenua di alcuni cristiani, che si sentivano minacciati e cer­cavano di difendersi davanti al potere delle autorità religiose giudai­che. Quando però l’Impero romano abbracciò il cristianesimo, que­sti racconti fantasiosi e irreali alimentarono contro il popolo giudai­co la terribile accusa di «deicidio»: un’arma letale che ha generato l’antiebraismo e ha provocato la persecuzione e il genocidio antise­mita.

[21] II Vangelo di Giovanni mette sulla bocca dei giudei queste parole: «Se lasci libero costui, non sei amico del Cesare» (19,12).

[22] Probabilmente, Gesù ascoltò la sentenza del prefetto romano in la­tino: Ibis ad crucem. Si trattava della formula più usata. Pilato par­lava latino e greco; Gesù aramaico e, forse, un po’ di greco. Nel pro­cesso vi fu probabilmente un qualche servizio di traduzione.

 

Giovedì – L’orrore della crocifissione

Gesù ascolta la sentenza atterrito. Sa che cosa sia la cro­cifissione. Fin da bambino ha udito parlare di quell’orri­bile supplizio. Sa anche che non è possibile alcun appello: Pilato è l’autorità suprema, mentre lui è un suddito di una provincia soggetta a Roma, privo dei diritti propri di un cittadino romano. Tutto è deciso. Sono le ore più amare della sua vita quelle che attendono Gesù[1].

All’epoca la crocifissione veniva considerata come l’esecu­zione più terribile e temuta. Giuseppe Flavio la considera «la morte più miserabile di tutte» e Cicerone la qualifica come «il supplizio più crudele e terribile»[2]. Tre erano i ge­neri di esecuzione più ignominiosi fra i romani: agonizza­re sulla croce (crux), essere divorati dalle belve (damnatio ad bestias) o venire bruciati vivi sul rogo (crematio). La cro­cifissione non era una semplice esecuzione, bensì una len­ta tortura. Al crocifisso non veniva direttamente danneg­giato alcun organo vitale, così che la sua agonia poteva pro­lungarsi per lunghe ore e persine per giorni. D’altro lato, era normale combinare la punizione di base della croci­fissione con umiliazioni e tormenti diversi. I dati sono rac­capriccianti[3]. Non è cosa insolita mutilare il crocifisso, ca­vargli gli occhi, bruciarlo, flagellarlo o torturarlo in diver­se maniere prima di appenderlo alla croce. Il modo di rea­lizzare la crocifissione si prestava senz’altro al sadismo dei carnefici. Seneca parla di uomini crocifissi a testa in giù o impalati in maniera oscena sul palo della croce. Nel de­scrivere la caduta di Gerusalemme, Giuseppe Flavio rac­conta che gli sconfitti «venivano frustati e sottoposti a ogni sorta di torture prima di morire crocifissi davanti alle mu­ra… I soldati romani, per ira e per odio, per farsi beffe di loro, appendevano in maniere diverse coloro che cattura­vano, e le loro vittime erano tante che essi non avevano spazio sufficiente per collocare le loro croci, né croci per inchiodarvi i loro corpi»[4]. La crocifissione di Gesù non sembra essere stata un atto di particolare accanimento da parte dei carnefici. Le fonti cristiane parlano soltanto del­la flagellazione e della crocifissione, oltre che di beffe e umiliazioni di diverso tipo.

La crudeltà della crocifissione era pensata per terrorizza­re la popolazione e servire così da monito generale. Era sempre un atto pubblico. Le vittime restavano completa­mente nude/agonizzanti in croce, in un luogo visibile: l’in­crocio di diverse strade frequentate, una piccola altura non lontano dalle porte di un teatro o il luogo stesso in cui il crocifisso aveva commesso il suo crimine. Non era facile dimenticare lo spettacolo di quegli uomini che si torceva­no dal dolore fra grida e maledizioni. A Roma vi era un luogo particolare per crocifiggere gli schiavi; si chiamava Campus Esquilinus, Questo campo di esecuzione, pieno di croci e di strumenti di tortura, quasi sempre circondato da uccelli da preda e cani selvatici, costituiva la miglior for­za di dissuasione. È facile che la collinetta del Gòlgota (luo­go del Cranio), non lontano dalle mura, presso una strada frequentata che portava alla porta di Efraim, fosse il «luo­go delle esecuzioni» della città di Gerusalemme. La crocifissione non si applicava ai cittadini romani, ec­cetto in casi eccezionali e per mantenere la disciplina fra i militari. Era troppo brutale e vergognosa: si trattava del tipico castigo per gli schiavi; veniva chiamata servile supplicium. Lo scrittore romano Plauto (ca. 250-184 a.C.) de­scrive con quanta facilità essi venissero crocifissi per man­tenerli nel terrore, stroncando alla radice qualsiasi cona­to di ribellione, fuga o furto[5]. D’altro lato, era la punizio­ne più efficace per coloro che osavano sollevarsi contro l’Impero. Per molti anni fu lo strumento più consueto per «pacificare» le province ribelli. Il popolo giudaico lo ave­va sperimentato ripetutamente. Nell’arco di soli settant’anni, vicini a quelli della morte di Gesù, lo storico Giuseppe Flavio ci informa di quattro crocifissioni di mas­sa: nell’anno 4 a.C., Quintilio Varo crocifigge a Gerusalem­me duemila ribelli; fra gli anni dal 48 al 52, Quadrato, le­gato di Siria, crocifigge tutti coloro che Curnano aveva cat­turato durante una battaglia fra giudei e samaritani; nel­l’anno 66, durante la prefettura del crudele Fioro, viene flagellata e crocifissa una quantità innumerevole di giu­dei; alla caduta di Gerusalemme (settembre del 70), numerosi difensori della città santa vengono brutalmente cro­cifissi dai romani[6].

Coloro che passano nei pressi del Gòlgota in quel 7 aprile dell’anno 30, non contemplano nessun pio spettacolo. An­cora una volta sono costretti a vedere, nel pieno delle fe­ste di Pasqua, la crudele esecuzione di un gruppo di con­dannati. Non potranno dimenticarlo facilmente durante la cena pasquale di quella notte. Sanno bene come finisce di solito quel sacrificio umano. Il rituale della crocifissione esigeva che i cadaveri restassero nudi sulla croce per ser­vire di cibo agli uccelli da preda e ai cani selvatici; i resti erano poi deposti in una fossa comune. Venivano così can­cellati per sempre il nome e l’identità di quei disgraziati. Forse in questo caso si sarebbe agito in maniera diversa, perché mancano ormai poche ore all’inizio del giorno di Pasqua, la festa più solenne di Israele, e – fra i giudei – si è soliti seppellire i giustiziati il giorno stesso. Secondo la tradizione giudaica, «un uomo appeso a un albero è una maledizione di Dio»[7].

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[1] I quattro evangelisti narrano dettagliatamente l’accaduto. Marco 15,15-39 ci presenta il racconto più antico. Matteo 27,27-54 lo segue molto da vicino, ma sviluppa assai di più i «prodigi» verificatisi alla morte di Gesù (w. 51-54). Luca 23,24-28 ha alcuni tratti propri: omet­te la flagellazione; pone sulle labbra di Gesù parole di perdono per quanti lo crocifiggono (v. 34), di salvezza per il buon ladrone (w. 39-43) e di fiduciosa preghiera al Padre nel consegnargli la sua vita (v. 46). Giovanni 19,17-29 ha un’impronta propria: omette l’episodio di Simone di Cirene; conferisce grande importanza alla scritta sulla cro­ce (19,22); dalla croce Gesù ha un breve dialogo con la madre e il di­scepolo prediletto (25-27) e pronuncia anche due brevi frasi prima di morire (28-30). Il Vangelo [apocrifo] di Pietro offre della crocifissione un racconto assai conciso (10-20), con alcuni importanti dettagli che andremo commentando.

[2] Crudelissimum teterrimumque supplicium (A Verre 2,5,165). La cro­cifissione veniva praticata da molti popoli dell’antichità. Persiani, as­siri, celti, germani e cartaginesi la utilizzarono in maniere diverse. Roma la imparò da Cartagine e ne fece il supplizio preferito per punire i peggiori criminali.

[3] È impressionante lo studio di M. Hengel, che riprende minuziosa­mente le testimonianze e le informazioni del mondo antico sulla cro­cifissione.

[4] Guerra giudaica V,449-451. A partire dall’imperatore Costantino, la crocifissione venne a poco a poco sostituita dalla forca, punizione più umana che causa la morte in maniera rapida.

[5] Durante la prima rivoluzione di schiavi in Sicilia (139-132 a.C.) ven­nero crocifissi 450 schiavi. Dopo la sconfitta di Spartaco, Grasso fe­ce crocifiggere sulla via Appia, fra Capua e Roma, 6.000 schiavi.

[6] Guerra giudaica 11,75; 11,241; 11,305-308; V.449-451. Fra i giudei ve­niva praticata la lapidazione, non la crocifissione. Tuttavia, Alessan­dro lanneo crocifisse ottocento farisei. Salendo al trono, Erode il Grande la soppresse.

[7] Così viene detto in Deuteronomio 21,22-23: «Se un uomo, reo di delitto capitale, è stato giustiziato, lo appenderai a un albero. Non lascerai che il suo cadavere trascorra la notte sull’albero; lo seppelli­rai il giorno stesso, perché chi è appeso è una maledizione di Dio».

 

Venerdì – Le ultime ore

Che cosa ha realmente vissuto Gesù durante le sue ultime ore?[1] La violenza, le percosse e le umiliazioni hanno ini­zio la stessa notte del suo arresto. Nei racconti della passione leggiamo due scene parallele di maltrattamenti. En­trambe seguono immediatamente la condanna di Gesù da parte del sommo sacerdote e da parte del prefetto roma­no, ed entrambe sono in relazione con i temi trattati.

Nel palazzo di Caifa, Gesù riceve «percosse» e «sputi», gli co­prono il volto e si fanno beffe di lui dicendogli: «Profetizza, Messia, chi è stato a picchiarti?»; le beffe si incentrano su Gesù come «falso profeta», l’accusa che fa da sfondo alla condanna giudaica.

Nel pretorio di Pilato, Gesù riceve di nuovo «percosse» e «sputi», e viene fatto oggetto di una mascherata: gli mettono addosso un mantello di porpora, gli calcano sul capo una corona di spine, gli mettono in mano una canna a mo’ di scettro regale e piegano le ginocchia davanti a lui dicendo: «Salve, re dei giudei»; qui tutta la beffa viene concentrata su Gesù come «re dei giu­dei», che è la preoccupazione del prefetto romano[2]. Così come sono descritte, probabilmente nessuna di queste due scene gode di rigore storico.

Il primo racconto è stato suggerito in parte dalla figura del «Servo sofferente di Yahvè», che offre le spalle alle «percosse» dei suoi carnefici e non si sottrae agli «insulti» e agli «sputi»[3].

La mascherata dei sol­dati, da parte sua, è probabilmente ispirata al rituale del­l’investitura dei re, con i simboli ben noti della clamide di porpora, la corona di foglie silvestri e il gesto di prosternarsi, cui prende parte, secondo Marco, «l’intera coorte» (600 sol­dati!). Si tratta indubbiamente di due scene profondamente rielaborate, nelle quali, in maniera indiretta e con non poca ironia, i cristiani fanno confessare agli avversali di Gesù ciò che egli è realmente per loro: profeta di Dio e re. Questo non significa affatto che tutto sia finzione.

All’ori­gine della prima scena nel palazzo di Caifa sembra soggia­cere il ricordo di schiaffi assestati da una o più guardie del sommo sacerdote nella notte dell’arresto[4]. Questo trattamento vessatorio nei confronti degli arrestati era abba­stanza abituale. Quando, trent’anni più tardi, intorno agli anni sessanta, Gesù, figlio di Ananìa, fu arrestato dalle au­torità giudaiche perché profetizzava contro il tempio, rice­vette numerose percosse prima di essere consegnato ai ro­mani[5].

Qualcosa di simile si può dire degli scherni da par­te dei soldati di Pilato. La scena non si ispira ad alcun te­sto biblico e l’atteggiamento vessatorio nei confronti di un condannato è verosimile; i soldati di Pilato non erano legionari romani disciplinati, ma truppe ausiliarie reclutate fra la popolazione samaritana, siriaca o nabatea, popola­zioni profondamente antigiudaiche. Non è improbabile che esse siano cadute nella tentazione di farsi beffe di quel giu­deo, finito in disgrazia e condannato dal prefetto. Non sap­piamo esattamente quello che fecero di Gesù; la descrizio­ne concreta che i Vangeli ci offrono è sempre ispirata a bef­fe e incidenti come quello che narra Filone. Secondo que­sto scrittore giudeo, nell’anno 38, per farsi beffe del re Erode Agrippa in visita ad Alessandria, venne preso un minorato mentale detto Carabbas, che fu «intronizzato» nel ginnasio della città: gli venne messo in testa un foglio di papiro in forma di diadema, gli vennero coperte le spalle con un tap­peto come mantello regale e gli si diede da tenere una can­na a mo’ di scettro; poi, come nei «mimi teatrali», dei gio­vani gli si misero in piedi da entrambi i lati imitando una guardia personale, mentre altri gli rendevano omaggio[6]. I soldati di Pilato cominciarono a intervenire in maniera davvero ufficiale quando il loro prefetto diede loro l’ordi­ne di flagellare Gesù[7]. La flagellazione, in questo caso, non è un castigo indipendente e neppure un ulteriore gioco dei soldati; fa parte del rito dell’esecuzione, che comincia in genere con la flagellazione e culmina con la crocifissione propriamente detta[8]. Dopo aver ascoltato la sentenza, Gesù viene probabilmente condotto dai soldati nel cortile del palazzo, chiamato «cortile lastricato», per procedere alla sua flagellazione. L’atto è pubblico; non sappiamo se qualcuno degli accusatori assista a quel triste spettacolo. Per Gesù cominciano le ore più terribili; i soldati lo spogliano com­pletamente e lo legano a una colonna o un supporto ade­guato. Per la flagellazione veniva utilizzato uno speciale strumento chiamato flagrum, dal manico corto e costitui­to di strisce di cuoio terminanti in palle di piombo, ossa di montone o pezzetti di metallo pungente. Ignoriamo di quali strumenti abbiano potuto servirsi i carnefici di Gesù, ma sappiamo quale era sempre il risultato. Gesù rimane sfigurato, appena con le forze per tenersi in piedi e con il corpo ridotto a carne viva. Così rimase anche Gesù, figlio di Ananìa, quando venne flagellato da Albino nell’anno 62; Giuseppe Flavio lo descrive «scorticato a frustate fino alle ossa»[9]. La punizione è talmente brutale che a volte i con­dannati muoiono durante il supplizio. Non si trattò del ca­so di Gesù, ma le fonti suggeriscono che gli rimasero ben poche forze; a quanto sembra, si dovette aiutarlo a porta­re la croce, perché non ce la faceva a reggerla, e di fatto la sua agonia non si prolungò: morì prima degli altri due col­pevoli crocifissi insieme con lui.

Conclusa la flagellazione, si procede alla crocifissione; non c’è motivo di ritardarla; l’esecuzione di tre crocifissi ri­chiede del tempo, e mancano poche ore al tramonto del sole, che segnerà l’inizio delle feste di Pasqua. I pellegrini e la popolazione di Gerusalemme si affrettano a fare gli ul­timi preparativi: alcuni salgono al tempio per acquistare il loro agnello e sgozzarlo ritualmente, altri vanno nelle loro case per preparare la cena. Si respira l’ambiente festoso della Pasqua. Dal palazzo del prefetto, una lugubre comi­tiva si mette in marcia sulla via del Gòlgota; il tragitto è relativamente corto, non arriva forse a cinquecento metri; uscendo dal pretorio, prendono probabilmente la stretta strada che corre fra il palazzo-fortezza di Pilato e le mu­ra; quando usciranno dalla città della porta di Efraim, si troveranno già sul luogo dell’esecuzione[10]. I tre condannati camminano scortati da un piccolo plotone di quattro soldati; a Pilato è parso sufficiente per ga­rantire la sicurezza e l’ordine; i seguaci più vicini di Gesù sono fuggiti: non teme grandi disordini per l’esecuzione di quei disgraziati. Probabilmente, insieme alla comitiva van­no anche i carnefici incaricati di giustiziarli; i colpevoli so­no tre, e la crocifissione richiede destrezza. Portano con sé il materiale necessario: chiodi, corde, martelli e altri og­getti. Gesù cammina in silenzio; come gli altri colpevoli, porta sulle spalle il patibulum, o traversa orizzontale su cui sarà presto inchiodato; quando arriveranno al luogo del­l’esecuzione, esso verrà assicurato a uno dei pali verticali (stipes) fissati in permanenza sul Gòlgota per essere ado­perati nelle esecuzioni. Appesa al collo porta una piccola tavoletta (tabella) su cui, secondo l’abitudine romana, è scritta la causa della pena di morte. Ognuno porta la sua; è importante che tutti sappiano che cosa attende coloro che li imitassero: la crocifissione deve servire di monito ge­nerale. Secondo alcune fonti, Gesù non potè trascinare la croce fino alla fine; a un certo punto, i soldati, nel timore che non arrivasse vivo al luogo della crocifissione, co­strinsero un uomo che veniva dai campi per celebrare la Pasqua a trasportare la croce di Gesù fino al Calvario; si chiamava Simone, era oriundo di Cirene (nell’attuale Libia) e padre di Alessandro e Rufo[11].

Non tardano ad arrivare al Gòlgota. Senza essere altret­tanto famoso del Campus Esquilinus di Roma, il posto era forse noto a Gerusalemme come luogo di pubbliche esecu­zioni; così suggerisce il suo sinistro nome: «luogo del Cra­nio» o «luogo del Teschio». In italiano, «il Calvario»[12]. Si trattava di una collinetta rocciosa di dieci o dodici metri di altezza sulla zona circostante. Anticamente era stata una cava da cui si estraeva materiale per le costruzioni della città. All’epoca serviva, a quanto sembra, come luogo di se­poltura nelle cavità delle rocce. Nella parte superiore del­la collinetta si potevano vedere i pali verticali saldamente infissi nella roccia. Accanto al Gòlgota passava una strada molto transitata che conduceva alla vicina porta di Efraim; il luogo non può essere più appropriato per fare della cro­cifissione un castigo esemplare.

Quindi si procede all’esecuzione dei tre colpevoli. Con Gesù si fa probabilmente quel che si faceva con qualsiasi con­dannato: lo spogliano completamente per degradare la sua dignità, lo gettano a terra, gli stendono le braccia sulla tra­versa orizzontale e con chiodi lunghi e solidi lo inchioda­no attraverso i polsi, facili da attraversare e che permetto­no di sostenere il peso del corpo umano; poi usando stru­menti adatti, alzano la traversa insieme con il corpo di Gesù e la fissano al palo verticale prima di inchiodargli i due piedi alla parte inferiore[13]. Di solito, l’altezza della cro­ce non superava di molto i due metri, in modo che i piedi del crocifisso restassero a trenta o cinquanta centimetri da terra; in questo modo la vittima restava più vicina ai suoi torturatori durante il suo lento processo di asfissia e, una volta morta, poteva essere facile pasto dei cani selvatici[14].

I soldati si preoccupano di collocare sulla parte superiore della croce la piccola placca di colore bianco su cui, in let­tere nere o rosse ben visibili, si indica la causa per la qua­le Gesù viene giustiziato. È quanto si usa fare in questi ca­si[15]. A quanto sembra, il cartello di Gesù era scritto in ebrai­co, la lingua sacra più utilizzata nel tempio, in latino, lin­gua ufficiale dell’Impero romano, e in greco, lingua comu­ne di tutti popoli dell’oriente, certamente la più parlata dai giudei della diaspora[16]. Il delitto di Gesù: «re dei giudei» de­ve risultare ben chiaro; queste parole non sono un titolo cristologico inventato in seguito dai cristiani[17], e non si trat­ta neppure di una notifica ufficiale che raccolga gli atti del processo davanti a Pilato: si tratta piuttosto di un modo per informare la popolazione, affinché l’esecuzione di Gesù ser­va di monito; in maniera intelligibile e con la sua piccola dose di beffa, si avvertono tutti di ciò che li attende se se­guono i passi di quest’uomo che pende dalla croce.

Gesù viene giustiziato con altri condannati; a quanto sem­bra questo tipo di esecuzioni di gruppo era abbastanza abi­tuale; le fonti cristiane parlano soltanto di altri due croci­fissi; potevano essere di più non sappiamo se fossero «ban­diti» catturati in qualche genere di scontro contro le auto­rità romane o, piuttosto, «delinquenti comuni» condanna­ti per qualche crimine punito con la pena di morte[18]. Alcuni mettono in dubbio il fatto. Ritengono che si tratti di un dettaglio inventato a partire da testi biblici come Isaia 53,12 o il Salmo 22,17[19], per mostrare con maggior forza l’atrocita commessa contro Gesù, che – innocente – è stato giu­stiziato come un criminale qualsiasi. Il dettaglio venne for­se raccolto con tale intenzione, ma non sembra un fatto fittizio; Gesù fu giustiziato insieme con altri condannati seguendo una prassi abituale; la maniera di rappresentare Gesù in un luogo preminente e centrale, in mezzo ai due banditi, può tuttavia essere dovuta a motivi di «estetica cri­stiana»[20].

Terminata la crocifissione, i soldati non si muovono dal posto. È obbligo vigilare perché nessuno si avvicini a to­gliere i corpi dalla croce, e attendere fino a quando i con­dannati abbiano emesso l’ultimo rantolo. Frattanto, se­condo i Vangeli, si dividono i vestiti di Gesù tirando a sor­te cosa ciascuno si porterà via[21]. Probabilmente avvenne così; secondo una prassi romana abituale, i beni del con­dannato potevano essere presi come «spoglie» (spolia): il crocifisso doveva sapere di non appartenere più al mondo dei vivi[22].

I Vangeli hanno conservato anche il ricordo del fatto che, in un qualche momento, i soldati hanno offerto a Gesù qualcosa da bere. Non è facile sapere che cosa sia avve­nuto; secondo Marco e Matteo, giunti al Gòlgota, prima di crocifiggerlo, i soldati offrono a Gesù «vino mischiato con mirra», una bevanda aromatica che sopiva la sensibilità e aiutava a sopportare meglio il dolore; ci viene detto che Gesù «non lo prese»[23]. Alla fine, poco prima di morire, suc­cede qualcosa di completamente diverso. Udendo che Gesù lanciava un forte grido invocando Dio, uno dei soldati si affretta a offrirgli del «vino inacetito», chiamato in latino pasca, una bevanda forte, molto popolare fra i soldati ro­mani, che la usavano per riacquistare forze e riprendere coraggio. Questa volta non si tratta di un gesto di com­passione per calmare il dolore del crocifisso, bensì di una sorta di beffa finale affinché sopporti ancora un poco, nel caso che Elia venisse in suo aiuto (!). Non ci viene detto se Gesù lo abbia bevuto; probabilmente non aveva più la for­za di far nulla; quest’offerta dell’aceto nei momenti finali è così radicata in tutte le fonti da essere, probabilmente, storica: ancora una beffa, questa volta in piena agonia[24]. Ma il dettaglio fu certamente raccolto nella tradizione per­ché acquistava una particolare profondità alla luce delle proteste di un orante che si lamenta così: «Attendo com­passione invano, non trovo chi mi consoli; mi hanno mes­so veleno nel cibo, hanno spento la mia sete con aceto»[25]. Ormai non c’è che da aspettare. Gesù è stato inchiodato alla croce fra le nove di mattina e le dodici a metà gior­nata[26]; l’agonia non si prolungherà. Per lui sono i momen­ti più duri; mentre il suo corpo si va deformando, cresce l’angoscia della progressiva asfissia; poco a poco rimane senza sangue e senza forze; i suoi occhi possono a mala­pena distinguere qualcosa. Da fuori gli giungono soltanto alcune beffe e le grida di disperazione e di rabbia di quan­ti agonizzano accanto a lui; presto sopraggiungeranno le convulsioni; poi il rantolo finale[27].

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[1] I racconti della passione ci offrono una fredda informazione sui fat­ti; fin dall’inizio, i cristiani hanno fatto ricorso alle sacre Scritture, e in particolare ai salmi sulla sofferenza del giusto (22 e 69), per dare un qualche significato a quella così orribile fine di Gesù. Tale riferi­mento alle Scritture ha influito in maniera notevole sul modo di pre­sentare la passione, ma ciò non implica in alcun modo che tutto sia stato inventato a partire da testi biblici. Per determinare il carattere storico di ogni dettaglio è necessario analizzare con cura quanto può essere una reminiscenza storica e quanto è un chiarimento prove­ niente dai testi biblici.

[2] Le beffe dei giudei sono descritte in Marco 14,65; Matteo 26,67-68; Luca 22,63-65. Le beffe dei soldati di Pilato in Marco 15,16-20; Matteo 27,27-31; Giovanni 19,2-3. Luca parla dello scherno nel palazzo di Erode (23,11).

[3] Così dice questo personaggio, che per i primi cristiani era una fi­gura di Gesù: «Ho offerto le spalle a quanti mi colpivano, non ho trat­to indietro il volto dagli insulti e dagli sputi» (Isaia 50,6).

[4] Giovanni parla dello schiaffo che una delle guardie diede a Gesù durante l’interrogatorio (18,22-23).

[5] Giuseppe Flavio, Guerra giudaica VI,302.

[6] Filone, In Flaccum 6,36-40.

[7] Quello della flagellazione è un fatto considerato storico pratica­mente da tutti (compresi J.D. Crossan e il gruppo del Jesus Seminar).

[8] I romani stabilivano una differenza fra la fustigatio, punizione pre­ventiva e dal carattere più lieve, e la flagellatio, terribile preludio al­ la crocifissione. Gli autori ritengono che Gesù sia stato assoggettato alla flagellazione che dava inizio alla sua esecuzione.

[9] Guerra giudaica VI.304.

[10] Gli autori discutono sul percorso preciso che Gesù potè compiere sulla via della crocifissione.

[11] Così lo presenta Marco 15,21 (Matteo 27,32; Luca 23,26); di lui, tut­tavia, in Giovanni non si dice nulla. Alcuni autori lo ritengono un personaggio fittizio, inventato per essere presentato come fedele se­guace del crocifisso: Simon Pietro non prende la croce di Gesù, an­zi scappa; Simone di Cirene prende la croce di Gesù e lo segue (Reinach, Jesus Seminar, Crossan); come però sottolinea Brown, il gesto di Simone non è volontario bensì forzato; come esempio di se­quela il suo atto non va bene; si tratta probabilmente di un fatto sto­rico (Taylor, Gnilka, Brown).

[12] II termine «Gòlgota» proviene dall’aramaico gulgulta, luogo del cra­nio o del teschio.

[13] Non è possibile precisare ulteriori dettagli. A quanto sembra, Gesù non venne legato per le braccia alla croce, ma fu inchiodato all’al­tezza dei polsi. Non sappiamo se i suoi due piedi siano stati inchiodati separatamente o se venne utilizzato un unico lungo chiodo. Non sembra siano stati usati né il sedile, piccolo appoggio di legno collo­cato sul palo verticale per scaricare il peso del corpo, né il suppedaneum, per appoggiare i piedi: non si aveva interesse a prolungare la sua agonia.

[14] Nel giugno del 1968, a Giv’at ha-Mitvar (a nord-est di Gerusalem­me), una tomba del I secolo scavata nella roccia. Uno degli ossari conteneva le ossa di un uomo dei venti ai trent’anni chiamato Yehohanan, morto crocifisso. Le braccia non erano state inchiodate ben­sì legate alla traversa orizzontale; i piedi erano stati separati da en­trambi i lati dal palo verticale per essere inchiodati non di fronte ben­sì di lato. Ciascuno dei piedi era stato inchiodato con un lungo chiodo che aveva attraversato dapprima una tavoletta di ulivo (posta af­finché il piede non si strappasse), poi il tallone e infine il legno del palo. Uno dei chiodi, piantandosi nel legno nodoso della croce, si ri­torse e non si potè ritirare dai piedi del cadavere. Nell’ossario sono stati rinvenuti ancora uniti il tallone, il chiodo e la tavoletta di ulivo. Il cadavere di Yehohanan, detto tra gli archeologi il «crocifisso di Giv’at ha-Mitvar», getta una luce sinistra sul supplizio sofferto da Gesù.

[15] Per la maggioranza degli storici, tale iscrizione o titulus della con­danna è uno dei dati più solidi della passione di Gesù (Legasse, Fitzmyer, Brown, Bovon, Gnìlka…), contro lo scetticismo di Bultmann e Linnemann.

[16] Soltanto Giovanni 19,20 ci informa del carattere trilingue del titu­lus della croce.

[17] I primi cristiani non hanno mai chiamato Gesù «re dei giudei»; sul­la croce avrebbero posto altri titoli: «Messia», «Salvatore del mon­do», «Signore»…

[18] Secondo Marco e Matteo, si tratta di due «banditi» (plurale di lèstés); secondo Luca si tratta di «malfattori» (plurale di kakourgos); egli evita forse il termine «bandito» (lèstés) a motivo del contenuto antiromano che avrebbe potuto avere per i suoi lettori.

[19] Così dice Isaia 53,12 del Servo di Yahvè, figura di Gesù per i cri­stiani: «Si consegnò indifeso alla morte e fu annoverato fra i crimi­nali». Nel Salmo 22,17 un giusto perseguitato grida: «Mi accerchia una banda di malvagi». Crossan vede i questi testi l’origine della sce­na narrata dai Vangeli.

[20] Così suggerisce R.E. Brown.

[21] Marco 15,24.

[22] II dettagli è ampliato nel Vangelo di Giovanni (19,23-24), che par­la di una «tunica senza cuciture», probabile allusione alla tunica por­tata dal sommo sacerdote. L’episodio è inoltre teologicamente illu­strato con la citazione del Salmo 22,19: «Si sono suddivisi i miei ve­stiti, hanno tirato a sorte la mia tunica».

[23] Marco 15,23 // Matteo 27,34.

[24] Tutti gli evangelisti parlano di questo episodio in diverse maniere: Marco 15,36; Matteo 27,48-49; Luca 23,36; Giovanni 19,28-30. Secondo il Vangelo [apocrifo] di Pietro (15-16), a Gesù viene dato que­sto «miscuglio» per avvelenarlo e far sì che muoia prima del tramonto del sole (!).

[25] Salmo 69,21b-22.

[26] Marco sembra ordinare cronologicamente il racconto in intervalli di tre ore. Alle tre del mattino canta il gallo (14,72); alle sei (alba) Gesù è condotto da Pilato (15,1); alle nove viene crocifisso (15,25); a mezzogiorno (ore dodici) l’oscurità comincia ad avvolgere tutto (15,33); alle tre del pomeriggio Gesù muore (15,34); alle sei (tramonto) viene sepolto. Lo schema, chiaramente artificioso, negli aspetti fon­damentali non si allontana molto dalla realtà: Gesù venne crocifisso fra le nove del mattino e mezzogiorno, e morì intorno alle tre del po­meriggio.

[27] Gli evangelisti non si accaniscono nel descrivere l’orrore dell’ago­nia di Gesù. Possiamo dedurlo dai dati che conosciamo intorno al­la pratica romana della crocifissione (Hengel, Sloyan, Legasse…). Le diverse teorie sulla causa fisiologica della morte di Gesù (Le Bec, Barbet, Behaut, Gilly, Edwards…) sono ipotesi mediche basate a vol­te su dettagli evangelici che non rivestono carattere storico bensì teologico…

 

Sabato – Nelle mani del Padre

Come vive Gesù questo tragico martirio? Cosa sperimenta constatando il fallimento del suo progetto del regno di Dio, l’abbandono dei suoi seguaci più vicini e l’ambiente ostile intorno a lui? Qual è la sua reazione davanti a una morte tanto ignominiosa quanto crudele? Sarebbe un errore pre­tendere di sviluppare una ricerca a carattere psicologico che ci introducesse nel mondo interiore di Gesù. Le fonti non si orientano verso una descrizione psicologica della sua pas­sione, ma invitano ad avvicinarci ai suoi atteggiamenti fon­damentali alla luce della «sofferenza del giusto innocente», descritta in diversi salmi ben noti nel popolo giudaico.

Fra i primi cristiani è presente il ricordo secondo il quale, alla fine della sua vita, Gesù ha vissuto un’angosciosa lotta interiore; ha persino chiesto a Dio di liberarlo da quella morte così dolorosa[1]. Probabilmente nessuno conosce con certezza le precise parole che egli ha pronunciato. Per av­vicinarsi in qualche modo alla sua esperienza, fanno ricor­so al Salmo 42: nell’angoscia di quell’orante ascoltiamo un’e­co di quanto Gesù ha potuto vivere[2]. Al tempo stesso, as­sociano la sua supplica in quel momento terribile a forme di preghiera che essi stessi recitano e che provengono da Gesù: senza dubbio, è stato lui il primo a viverle nel fondo del suo cuore[3]. Agli inizi forse non si sa concretizzare co­me e dove Gesù abbia vissuto quella crisi, ma ben presto il fatto viene collocato nell’«orto del Getsèmani», nel dram­matico momento in cui sta per aver luogo il suo arresto[4].

La scena è straziante. Nel mezzo delle ombre della notte, Gesù si addentra nell’«orto degli Ulivi». Poco a poco, «co­mincia a rattristarsi e angosciarsi»; poi si allontana dai suoi discepoli cercando, come è suo solito, un po’ di silenzio e di pace. Presto «cade a terra» e resta prostrato con la faccia a terra[5]. I testi cercano di suggerire il suo abbattimento con diversi termini ed espressioni. Marco parla di «tristezza»: Gesù è profondamente triste, di una tristezza mortale; nes­suno può mettergli gioia in cuore; gli sfugge un lamento: «La mia anima è tristissima, fino alla morte». Si parla an­che di «angoscia»: Gesù si vede abbandonato e abbattuto; di lui si è impossessato un pensiero: sta per morire. Giovanni parla di «turbamento»: Gesù è sconcertato, interiormente lacerato. Luca sottolinea l’«ansietà»: quel che Gesù speri­menta non è né inquietudine né preoccupazione; è orrore davanti a ciò che lo attende. La Lettera agli Ebrei dice che Gesù piangeva: pregando gli sgorgavano le «lacrime»[6].

Da terra, Gesù comincia pregare. La fonte più antica ri­prende così la sua preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è pos­sibile; allontana da me questa coppa; però non avvenga quel­lo che voglio io, ma quello che vuoi tu»[7]. In questo momento di angoscia e abbattimento totale, Gesù torna alla sua originaria esperienza di Dio: Abbà. Con questa invoca­zione in cuore, si immerge fiduciosamente nel mistero in­sondabile di Dio, che gli sta offrendo una così amara cop­pa di sofferenza e di morte. Non ha bisogno di molte pa­role per comunicare con Dio: «Tu puoi tutto; io non voglio morire; ma sono disposto a ciò che vuoi tu». Dio può tut­to, Gesù non ha alcun dubbio; potrebbe realizzare il suo re­gno in un’altra maniera, che non comportasse quel terribile supplizio della crocifissione. Per questo gli grida il suo desiderio: «Allontana da me questa coppa; non avvicinar­mela più; voglio vivere». Ci dev’essere un altro modo per­ché si compiano i disegni di Dio. Ora, angosciato, chiede al Padre di risparmiargli quella coppa. Però è disposto a tut­to, anche a morire, se è questo ciò che il Padre vuole: «Si faccia quello che vuoi tu». Gesù si abbandona totalmente alla volontà di suo Padre nel momento in cui essa gli si pre­senta come qualcosa di assurdo e di incomprensibile[8]. Che cosa vi è sullo sfondo di questa preghiera? Da dove sgorgano l’angoscia di Gesù e la sua invocazione rivolta al Padre?[9] Ad affliggerlo è indubbiamente il fatto di dover morire così presto e in maniera così violenta. La vita è il dono più grande di Dio; per Gesù, come per qualsiasi giu­deo, la morte è la sventura maggiore, perché distrugge tut­to quanto di buono vi è nella vita e non conduce se non a un’oscura esistenza nello sheol[10]. Forse la sua anima rab­brividisce ancora di più pensando a una morte ignominiosa come quella della crocifissione, considerata da molti come segno dell’abbandono e persine della maledizione di Dio. Ma per Gesù c’è qualcosa di ancora più tragico. Morirà senza veder realizzato il suo progetto; ha vissuto la sua dedizione con passione tale, è talmente immedesimato nella causa di Dio, che ora lo strappo è più orribile. Che cosa sarà del regno di Dio? Chi difenderà i poveri? Chi penserà a coloro che soffrono? Dove troveranno i peccatori l’acco­glienza e il perdono di Dio?

L’insensibilità e l’abbandono dei discepoli lo gettano nella solitudine e nella tristezza. Il loro comportamento gli mo­stra la grandezza del suo fallimento; ha raccolto intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli e discepole, con essi ha cominciato a formare una «nuova famiglia» al servizio del regno di Dio; ha scelto i «Dodici» come numero simboli­co della restaurazione d’Israele; li ha riuniti in quella re­cente cena per contagiar loro la sua fiducia in Dio. Ora li vede che fuggono, lasciandolo da solo. Tutto crolla. La di­spersione dei discepoli è il segno più evidente del suo fal­limento; chi li raccoglierà d’ora innanzi? Chi vivrà al ser­vizio del regno di Dio?

La solitudine di Gesù è totale. La sua sofferenza le sue gri­da non trovano eco in nessuno: Dio non gli risponde; i suoi discepoli «dormono».

Catturato dalle forze di polizia del tempio, Gesù non ha più alcun dubbio: il Padre non ha ascoltato il suo desiderio di restare in vita; i suoi discepo­li fuggono cercando la propria sicurezza. È solo!

I racconti lasciano intravedere questa solitudine di Gesù nel corso di tutta la passione. L’attenzione degli abitanti di Gerusalem­me e di quella gran folla di pellegrini che riempie la città non è rivolta a quel piccolo gruppo che sta per essere giu­stiziato nei dintorni della città. Nel tempio tutto è agita­zione e affaccendarsi. In quelle ore, migliaia di agnelli ven­gono sacrificati nel sacro recinto; la gente si muove feb­brile concludendo gli ultimi preparativi per la cena pa­squale. Soltanto quanti, nella loro strada, si imbattono nel corteo dei condannati o passano nei pressi del Gòlgota fan­no attenzione. Come è consueto nelle società antiche sono persone che hanno familiarità con lo spettacolo di un’ese­cuzione pubblica; le loro reazioni sono diverse: curiosità, grida, beffe, disprezzo e forse qualche commento di com­passione. Dalla croce, Gesù avverte probabilmente soltan­to rifiuto e ostilità[11].

Soltanto Luca parla di un atteggiamento più amabile e com­passionevole da parte di alcune donne che, in mezzo alla calca che osserva i condannati sulla via della croce, si av­vicinano a Gesù piangendo per lui[12]. D’altra parte, un grup­po di discepole di Gesù si trova sulla scena del Gòlgota e «guarda da lontano», poiché i soldati non permettono che nessuno si avvicini ai crocifissi salendo fino alla cima del­la collinetta[13]. Di queste coraggiose donne che rimangono lì fino alla fine ci vengono dati i nomi. Tutti gli evangelisti concordano sulla presenza di Maria di Màgdala, la donna che ama tanto Gesù; Marco e Matteo parlano di altre due donne: Maria, la moglie di Alfeo, madre di Giacomo il mi­nore e di loses, e Salome, la madre di Giacomo Giovanni. Soltanto il quarto Vangelo menziona «madre di Gesù», una sua zia, sorella di sua madre, e «Maria, moglie di Clèopa». Sebbene sia stato detto di frequente che la presenza di que­ste donne ha potuto recar conforto a Gesù, il fatto è poco probabile. Circondato dai soldati di Pilato e dagli incari­cati dell’esecuzione, è difficile pensare che durante la sua agonia abbia potuto accorgersi della loro presenza, obbli­gate come erano a restare a distanza, perdute fra la gente. Probabilmente le prime generazioni cristiane non sapeva­no con esattezza le parole che Gesù poteva aver mormo­rato nel corso della sua agonia. Nessuno era stato abba­stanza vicino da raccoglierle[14]. Esisteva il ricordo del fat­to che Gesù era morto pregando Dio e anche del fatto che, alla fine, aveva lanciato un forte grido[15]; poco più.

Quasi tutte le parole concrete che gli evangelisti pongono sulle labbra di Gesù riflettono probabilmente le riflessioni dei cristiani, che approfondiscono via via la morte di Gesù in prospettive diverse, mettendo l’accento su diversi aspetti della sua preghiera: desolazione, fiducia o abbandono nel­le mani del Padre. Non potendo far ricorso a ricordi con­creti conservati nella tradizione, ci si riferisce a salmi ben noti nella comunità cristiana, nei quali Dio viene invocato partendo dalla sofferenza[16].

Dobbiamo dunque rassegnarci a non saper nulla con sicu­rezza? Sembra abbastanza chiaro che il «dialogo» di Gesù con sua «madre» e con il «discepolo amato» è una scena costruita dal Vangelo di Giovanni[17].

Lo stesso va detto del «dialogo» fra i due malfattori e Gesù, redatto quasi certa­mente da Luca[18].

D’altra parte è causa di una certa disillusione sapere che la preghiera forse più bella di tutto il racconto della passione è testualmente dubbia; secondo l’evangelista Luca, mentre veniva inchiodato alla croce, Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Indubbiamente, tale è stato il suo atteggiamento in­teriore; lo era sempre stato; ha chiesto ai suoi di «amare i loro nemici» e «pregare per i loro persecutori»; ha insistito nel perdonare fino a «settanta volte sette». Quanti lo hanno conosciuto non dubitano che Gesù sia morto perdonando; probabilmente, però, lo ha fatto in silenzio, o al­meno senza che nessuno abbia potuto ascoltarlo. È stato Luca, o forse un copista del II secolo, a mettere sulla sua bocca ciò che tutti nella comunità cristiana pensavano[19].

Il silenzio di Gesù durante le sue ultime ore è sorprendente, tuttavia alla fine Gesù muore «lanciando un forte grido». Tale grido inarticolato è il ricordo più certo della tradizione[20]; i cristiani non lo dimenticarono mai. Tre evangelisti pongono anche sulla bocca di Gesù moribondo tre di­verse parole, ispirate ad altrettanti salmi: secondo Marco (= Matteo), Gesù grida a gran voce: «Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?»; Luca ignora invece queste parole e dice che Gesù grida: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito»; secondo Giovanni, poco prima di morire, Gesù dice: «Ho sete», e, dopo aver bevuto l’aceto che gli viene offerto, esclama: «Tutto è compiuto». Che cosa possiamo dire di queste parole? Sono state pronunciate da Gesù? Sono parole cristiane, che ci invitano a penetrare nel mistero del silenzio di Gesù, spezzato soltanto alla fine dal suo grido sorprendente?

Non è difficile comprendere la descrizione che ci viene offerta da Giovanni, l’evangelista più tardivo. Secondo la sua visione teologica, «essere elevato sulla croce» significa per Gesù «tornare al Padre» ed entrare nella sua gloria; per questo il suo racconto della passione è il cammino sereno e solenne di Gesù verso la morte; non vi è angoscia né spavento; non vi è resistenza a bere l’amaro calice della croce: «La coppa che il Padre mi ha offerto, non dovrei berla?»[21]. La sua morte non è che il coronamento del suo desiderio più profondo; egli lo esprime così: «Ho sete», voglio compiere in pieno la mia opera; ho sete di Dio, voglio ormai entrare nella sua gloria[22]. Per questo, dopo aver bevuto l’aceto che gli offrono. Gesù esclama: «Tutto è compiuto»; è stato fedele fino alla fine, la sua morte non è la discesa nello sheol, bensì il suo «passaggio da questo mondo al Padre». Nelle comunità cristiane, nessuno lo metteva in dubbio.

È facile comprendere anche la reazione di Luca. Il grido angoscioso di Gesù, che si lamenta con Dio per il suo abbandono, gli risulta duro. Marco non aveva avuto alcun problema nel metterlo in bocca a Gesù, ma forse qualcuno avrebbe potuto interpretarlo male. Allora, con grande libertà, lo sostituisce con altre parole, a suo giudizio più adatte: «Padre, nelle tue mani abbandono la mia vita»[23]. Doveva restare ben chiaro che l’angoscia vissuta da Gesù non aveva mai annullato il suo atteggiamento di fiducia e totale abbandono al Padre. Nulla e nessuno aveva potuto separarlo da lui. Al termine della sua vita. Gesù si affidò fiducioso a quel Padre che era stato all’origine di tutto il suo operato; Luca voleva metterlo bene in chiaro.

Tuttavia, nonostante tutte le loro riserve, il grido raccolto da Marco: Eloì, Eloì, lemà sàbactàni!, cioè «Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?» è, senza dubbio, il più antico della tradizione cristiana, e potrebbe risalire a Gesù stesso. Queste parole pronunciate in aramaico, lingua materna di Gesù, e gridate nel mezzo della solitudine e dell’abbandono totale sono di una sincerità schiacciante. Se non fosse stato Gesù a pronunciarle, qualcuno della comunità cristiana avrebbe osato metterle sulle sue labbra? Gesù muore in una solitudine totale; è stato condannato dalle autorità del tempio, il popolo non lo ha difeso, i suoi sono ruggiti; intorno a sé ascolta soltanto beffe e disprezzo; malgrado le sue grida al Padre nell’orto del Getsèmani, Dio non è venuto in suo aiuto. Il suo amato Padre lo ha abbandonato a una morte ignominiosa. Perché? Gesù non chiama Dio Abbà, Padre, con la sua espressione abituale e familiare. Lo chiama Eloì, «Dio mio», come tutti gli esseri umani[24]. La sua invocazione non cessa di essere un’espressione di fiducia: Dio mio! Dio continua ad essere il suo Dio nonostante tutto. Gesù non dubita della sua esistenza né del suo potere di salvarlo; si lamenta del suo silenzio: dov’è? Perché tace? Perché lo abbandona proprio nel momento in cui ha più bisogno di lui?

Gesù muore nella notte più oscura; non entra nella morte illuminato da una rivelazione sublime; muore con un «perché» sulle labbra. Ora, tutto rimane nelle mani del Padre[25].

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[1] II fatto è stato raccolto in diverse testimonianze: Marco 14,32-42 (Matteo 26,36-46); Luca 22,39-45; Giovanni 12,23.27.28.29; Lettera agli Ebrei 5,7-10.

[2] Questo orante si esprime così: «Perché ti angosci, anima mia, per­ché ti turbi? Spera in Dio, che tornerai a lodarlo: “Salvezza del mio volto, Dio mio. Mi sento venir meno, per questo ti ricordo”» (Salmo 42,6-7).

[3] «Abbà, Padre» (Marco); «Si faccia la tua volontà» (Matteo); «Padre, glorifica il Tuo nome» (Giovanni); «Non metterci alla prova» (Marco).

[4] Circa la storicità della scena del Getsèmani vi sono posizioni di­verse. Alcuni la considerano una mera invenzione della comunità cri­stiana, non un fatto trasmesso da testimoni (Liidemann, Crossan, Jesus Seminar); molti la accettano come uno dei fatti più sicuri: nessuno avrebbe inventato una scienza così sfavorevole per Gesù (Lietzmann, Schanckenburg, Gnilka…); altri considerano il raccon­to «sostanzialmente storico» ma molto elaborato dalla tradizione cristiana, dato che non si conoscevano le parole pronunciate da Gesù (Léon-Dufour, Grelot, Brown). Seguo questa posizione, più sfumata.

[5] Luca lo presenta «inginocchiato» in un atteggiamento che può ser­vire di esempio agli oranti cristiani (22,41); Giovanni non lo presen­ta «caduto in terra», ma parla del granello che è fecondo soltanto quando «cade in terra e muore» (12,24).

[6] Ebrei 5,7. Quest’immagine di un Gesù turbato e angosciato, cadu­to in terra per implorare Dio di liberarlo dal suo destino, è in forte contrasto con la morte di Socrate descritta da Piatone: costretto ad assumere veleno, Socrate accetta la propria morte senza lacrime né suppliche patetiche, nella certezza di dirigersi verso il mondo della verità, della bellezza e della bontà perfetta.

[7] Marco 14,36.

[8] È necessario comprendere bene tutto ciò. Nei Vangeli non viene mai detto che Dio voglia la «distruzione» di Gesù. La crocifissione è un «crimine» e una «ingiustizia». Come potrebbe il Padre volere che Gesù venga torturato? Quel che Dio vuole è che egli rimanga fedele al suo servizio al regno senza alcuna ambiguità, che non ritratti il suo messaggio di salvezza in quest’ora del confronto decisivo, che non si tiri indietro nella sua difesa e solidarietà verso gli ultimi, che continui a rivelare a tutti la sua misericordia e il suo perdono.

[9] Alcune correnti teologiche hanno attribuito l’angoscia del Getsèmani a cause diverse: Gesù prende consapevolezza del fallimento del suo sacrificio, che non eviterà la «condanna» di molti; sperimenta in se stesso la «condanna del peccato», il «castigo riservato ai peccato­ri», la «collera di Dio»… Tali letture vanno al di là dei testi, che non parlano né di «peccato» né di «castigo». Il calice non simboleggia la «collera di Dio» sugli empi, bensì il doloroso e imminente destino della crocifissione.

[10] Lo sheol è il «paese dei morti». Secondo la fede giudaica si trova nel profondo della terra. Lì non vi è luce, bensì tenebre e ombre den­se; non vi è vita, né cantici, né lode di Dio; lì discendono tutti i mor­ti, buoni e cattivi, senza che nessuno possa tornare a questa vita. Ai tempi di Gesù, molti lo consideravano come il luogo d’attesa della ri­surrezione.

[11] Non è possibile precisare nei dettagli il carattere storico delle di­verse reazioni ai piedi della croce di Gesù. Le fonti cristiane hanno accentuato le beffe e gli insulti ispirandosi al Salmo 22,7-9. Secondo le diverse versioni, si fanno beffe di Gesù «quanti passano da lì», i «sommi sacerdoti», i «soldati» e persine «quelli che sono crocifissi con lui». Soltanto Luca (e il Vangelo [apocrifo] di Pietro) parlano di un sentimento di dispiacere in qualcuno.

[12] Luca 23,27-31. Disponeva forse di una fonte particolare, ignota agli altri evangelisti (Fitzmyer, Taylor…)? Quel che è certo è che la mano e lo spirito di Luca si possono osservare quasi in ogni riga (Brown).

[13] II fatto viene in genere accettato come storico, sebbene il dettaglio sia stato probabilmente ricordato per influsso del Salmo 38,12: «I più vicini restano a distanza» (Brown).

[14] Le «sette parole» di Gesù sulla croce non sono radicate nella tra­dizione se non in forma debole. Soltanto il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è attestato da più di un evangelista (Marco – Matteo). Le rimanenti parole compaiono soltanto alcune in Luca e altre in Giovanni, senza nessuna concordanza.

[15] II dato sembra storico. Così pensa la maggior parte degli autori; lo si ricordava forse perché un tal grido non è normale per un crocifisso che muore asfissiato.

[16] Questo modo in intendere le «sette parole» può sconcertare qual­cuno, ma è la posizione della maggioranza degli esperti, compresi autori così equilibrati come Brown, Lèon-Dufour, Grelot, Dunn…

[17] Secondo Giovanni 19,26-27, «Gesù, vedendo sua madre e accanto a lei il discepolo che amava, dice a sua madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi dice al discepolo: “Ecco tua madre”». È difficile accettare la storicità dell’episodio. Nessun’altra fonte parla della presenza della madre di Gesù presso la croce; D’altro lato, la figura del «discepolo amato» compare soltanto nel Vangelo di Giovanni. La scena è probabilmente una composizione giovannea.

[18] Secondo Luca 23,39-43, mentre uno dei malfattori insulta Gesù, l’altro, rimproverando il compagno, ne difende l’innocenza. Poi, ri­volgendosi a Gesù gli dice: «Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno». Gesù gli dice: «Ti assicuro che oggi sarai con me in pa­radiso». Questo dialogo fra i malfattori appesi accanto a Gesù, di cui soltanto Luca parla, è un artifizio. Gli insulti del primo malfattore sono ispirati agli insulti che, in Marco 15,30, proferiscono i passanti; d’altra parte, il linguaggio di Gesù risulta strano: egli era solito parlare del «regno di Dio», non del «paradiso». Secondo il Vangelo [apocrifo] di Pietro (13,14), uno dei malfattori rimproverò i soldati perché maltrattavano Gesù, e quelli, per vendetta, «ordinarono che non gli venissero spezzate le gambe, affinché morisse fra i tormenti». A quanto sembra, non esisteva un ricordo preciso circa l’operato di quei malfattori sulla croce. L’intento di Luca è probabilmente quello di presentare Gesù come il giusto oltraggiato dagli ingiusti e annunciare il perdono a ogni peccatore pentito.

[19] Questa bella preghiera di perdono di Gesù verso i suoi carnefici non compare in codici così importanti e antichi come quello Vaticano, di Beza o le versioni siriaca e copta del codice Sinaitico. La preghiera è probabilmente ispirata al Padre Nostro. Venne pronunciata da Gesù e conservata soltanto da Luca? Circolò come detto indipendente, inserito più tardi nel Vangelo di Luca da un copista, mentre altri lo ignoravano? Fu redatta da Luca perché rispondeva all’atteggiamento di Gesù e più tardi soppressa da un copista che non vedeva di buon occhio «perdonare i giudei?». Non sappiamo nulla con certezza.

[20] Così attestano in qualche modo i tre sinottici e il Vangelo [apocrifo] di Pietro. Anche la Lettera agli Ebrei parla del «possente clamore» che Gesù rivolge «a colui che poteva salvarlo dalla morte» (5,7).

[21] Giovanni 18,11.

[22] Giovanni si ispira indubbiamente al Salmo 69,22: «Hanno spento la mia sete con aceto». Ma nell’esclamazione di Gesù risuonano altri salmi: «La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente; quando potrò andare a vedere il volto di Dio?» (42,3); «O Dio, tu sei il mio Dio, io ti cerco, la mia anima ha sete di te» (63,2).

[23] Luca omette il grido angoscioso di Gesù tratto dal Salmo 22,2 e lo sostituisce con una preghiera di fiducia tratta dal Salmo 31,6. Accentua inoltre l’atteggiamento fiducioso di Gesù introducendo il termine «Padre» (Léon-Dufour, Grelot, Brown…).

[24] Secondo il Vangelo [apocrifo]di Pietro Gesù gridò: «Mia forza, mia forza, mi stai abbandonando!» (19).

[25] Alcuni autori (Sahlin, Boman, Lèon-Dufour, Brown…) non scartano la possibilità che Gesù morendo abbia gridato solo queste parole: ‘Eli, ‘atta, «Tu sei il mio Dio». Tale espressione si incontra appunto nei tre salmi che hanno ispirato gli evangelisti a mettere sulle labbra di Gesù una preghiera diversa in ogni caso. Il Salmo 22, citato da Marco, comincia con il «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ma questo sfogo culmina in: «Dal ventre di mia madre, tu sei il mio Dio» (22,11). Il Salmo 31, che offre a Luca la preghiera di Gesù: «Nelle tue mani affido il mio spirito», dice più avanti: «Io confido in te, Signore; ti dico: Tu sei il mio Dio». Il Salmo 63, che ha potuto ispirare l’«Ho sete», detto da Gesù secondo Giovanni, comincia così: «O Dio, tu sei il mio Dio, ti cerco all’aurora, la mia anima ha sete di te».

 

Pensiero della settimana

 La verità vi farà liberi

sconvolgendovi.