Trave e pagliuzza

VIII domenica del tempo Ordinario

Domenica 3 marzo 2019

Prima lettura: Sir 27, 4-7        Salmo: Sal 91    Seconda lettura: 1 Cor 15, 54-58        Vangelo: Lc 6, 39-45

 

 

Nel vangelo di oggi, Gesù continua a parlare ai suoi discepoli con delle parole che facilmente lui ha detto e che gli evangelisti riportano in contesti diversi. Sono parole che trascendono il singolo fatto (è difficile per noi capire quando e a chi Gesù le ha dette) e diventano delle regole di vita universali per tutti in ogni fatto e con ogni persona.

 

6,39Disse loro anche una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?

DISSE LORO ANCHE UNA PARABOLA=è una parabola piccolissima, fatta da una sola frase. Più che una parabola è un’immagine.

La parabola è un’immagine che ti chiede di andare oltre al contenuto: dal contenuto si passa al significante, a ciò che vuol dire. La parabola ti dice: “Non rimanere in superficie. Non fermarti alle parole ma vai dentro, meglio dietro, alle parole e cogline il senso”.

 

Questa parabola è all’inizio di un discorso di varie parabole (ciechi, maestro-discepolo, trave-pagliuzza, albero buono), dove tutte mettono in luce il pericolo di sentirsi superiori, di più, per ruolo, per sapere, per conoscenza, degli altri, per cui ci si crede: 1. Guide; 2. Maestri; 3. Si giudica (trave-pagliuzza); 4. Si pretendono frutti buoni quando si è alberi cattivi.

 

PUO FORSE UN CIECO GUIDARE UN ALTRO CIECO=meti=forse che, indica già la risposta: “No!”.

La cecità a quel tempo era un’infermità molto diffusa e veniva equiparata quasi all’essere morti. Tanto è vero che solamente Dio poteva toglierla (Is 29,18; 35,5). Quindi, quando Gesù guarisce, per chi vede questa cosa, Gesù è ovviamente Figlio di Dio.

Ma, ricordiamocelo, è una parabola e la parabola è una spiegazione per immagini. Qui si vuole parlare di un altro tipo di cecità, quella interna, quella spirituale, quella psicologica. La cecità potremmo chiamarla l’ignoranza o la presunzione o l’ostinazione di chi crede di sapere e non sa, di chi crede di vedere e non vede, di chi crede di aver fede e, invece, non ne ha.

 

La parabola ci pone di fronte due persone cieche, ma non sono sullo stesso piano. No! Perché uno è cieco e, quindi, sapendo la sua condizione si lascia guidare. L’altro, invece, pur essendo cieco, pensa di vederci e vuole essere guida dell’altro.

 

NON CADRANNO TUTTI E DUE IN UN FOSSO=ouchi=forse che non, indica già la risposta: “Certo che sì!”. La caduta nel fosso è la conseguenza inevitabile.

Il termine fosso (bothimos in greo, sceol in ebraico) è sempre nella Bibbia associato a situazioni negative (prigionie, sepolcro).

 

Nei vangeli il senso della parabola prende significati diversi a seconda dell’evangelista e tutti sono “interessanti” e nutrienti per noi.

In Lc se la parabola si riferisce a quello che precede: “Non giudicare” (Lc 6,37), il senso che ne deriva è: “Chi giudica è un cieco che crede di vederci!”. Se si riferisce a quello che segue: “Il discepolo non è più del maestro”, il senso sarebbe: “Chi si crede chissà chi, è cieco perché si crede superiore degli altri”.

In Mt 15,14 il senso è molto diverso perché i ciechi sono i farisei e gli scribi: sono loro le guide degli altri ciechi. Quindi sono le guide spirituali ad essere cieche.

Nel Vangelo di Tommaso, invece, la cecità è non riconoscere la scintilla di luce divina presente in ciascuno di noi. Quando non la vedi sei cieco.

 

Cosa ci dice la parabola? Dipende da che cieco sei!

 

Se sei il cieco che si fa guidare: “Stai attento da chi ti fai guidare! Non guardare solo al ruolo ma guarda a che tipo di persona hai davanti, alla quale ti affidi: “Ti può guidare? Ci vede? È consapevole?””.

  1. Non esistono scorciatoie nel cammino dello Spirito. In giro ci sono incontri, proposte, iniziative, che promettono soluzioni semplici, facili e miracolose. Chi ti promette “soluzioni”, forse, cerca clienti… ma facilmente è cieco.
  2. Nessuna dipendenza: una buona guida vuole che tu la lasci andare appena tu sei pronto, anzi ti manda lei nella Vita. Chi ti tiene con sé… forse, è cieco.

Chi ti dà ordini, chi ti da regole chiare e rigorose, crea forme di dipendenza. Il buon maestro vuole che tu divenga un altro maestro come lui. Il buon genitore vuole che suo figlio lasci casa e non che rimanga lì per sempre.

C’è un gruppo religioso, molto accogliente, con sorrisi e abbracci, purché tu faccia quello che dicono loro. Se non lo fai se giudicato e ripreso. Se tu pensi diversamente, sei resistente alla volontà di Dio. Se fai altre scelte, hai il demonio dentro. Se pensi con la tua testa, sei un disubbidiente. Forse, un gruppo così, è meglio lasciarlo!

 

Se sei il cieco che vuole guidare: “Stai attento a non essere presuntuoso, arrogante!”.

Presuntuoso viene dal latino prae-sumere: prae=prima, anticipatamente; sumere=prendere, attribuirsi. È quando prima di sapere, prima di conoscere, prima di vedere, prima di farsi domande, tu hai già stabilito cosa dev’essere.

Arrogante viene dal latino ad-rigare: ad=a; rogare=chiedere. L’arrogante chiede solamente a sé: lui è l’unico riferimento.

Il presuntuoso “sa già”: non ha bisogno di chiedere, di ascoltare. Lui ha già la risposta e se qualcuno gli fa vedere altri punti di vista, lui non si sente capito. Lui sa tutto e di tutto (in realtà sa poco di poco!). Lui è deciso, sicuro, perché crede di avere la verità. Lui sa fare tutto più e meglio di te: se tu fai qualcosa ci sarà sempre qualcosa che non andrà bene!

Il presuntuoso dentro di sé ha bisogno di dirsi: “So già come sono le cose… so già come funzionano… io so… sono le solite cose… niente di nuovo sotto il sole… nessuno t’insegna niente… le risposte si trovano dentro di sé…”.

Ma da dove nasce la presunzione? Una persona si sente profondamente insicura: questo è un sentimento molto doloroso. Per non “sentire” questo sentimento “di non sapere, di dover imparare, di cambiare idea, di rimettersi in gioco, di operare dei cambiamenti”, stabilisce che lui già sa. Se già sa, non ha bisogno di sapere, non ha bisogno di imparare, non ha bisogno di confrontarsi, non ha bisogno di mettersi in gioco: lui sa già!

Ma il prezzo da pagare è alto: il presuntuoso, infatti, non vede la realtà ma solo la sua realtà che si chiama illusione.

 

Più la mente è piccola e più è grande la presunzione (Esopo)”.

Non si può imparare quando si crede di sapere già”. Se sei cieco non puoi guidare nessuno!

Un giorno in un coro parrocchiale si presenta a cantare un ragazzo che viene dal Sud. Modestamente entra e canta. Poi, mancando per un concerto il chitarrista parrocchiale, molto delicatamente si propone lui. Il ragazzo è un vero fenomeno (e possiamo capirlo!: era un noto chitarrista… solo che nessuno lo sapeva!). Il chitarrista precedente (niente a confronto del nuovo arrivato!) andava a dire a tutti: “Sì, è bravo… ma non sa suonare in un coro… se avessi il tempo che ha lui, sarei anch’io bravo così… solo tecnica ma niente talento”. E aveva la presunzione di essere migliore!

Un giorno un vescovo chiese ad un fedele: “Lei crede in Dio?”. “Credere, è una parola grossa. Diciamo che lo stimo un po’!”.

Mia nonna diceva sempre: “La presunzione è figlia dell’ignoranza e madre della mala creanza” e anche: “Più inetto, più presuntuoso”. È proprio così!

C’è un uomo che spinto da sua moglie ha iniziato un percorso di conoscenza in gruppo. Dopo alcuni incontri dice: “Ah, questi stanno tutti male, io non ho mica tutti questi problemi!”, e ha smesso. Peccato che lui sia alcolista, violento (su moglie e figli), dipendente dalle sostanze e narcisista.

C’è un padre il cui figlio “non riesce più ad andare a scuola”. “Io so cos’è: pigrizia! I ragazzi di oggi hanno tutto e tutto gratis! Un po’ di olio di gomito gli serve!”. Sua moglie gli ha detto: “Andiamo a farci aiutare!”. “Noi? Non siamo mica noi che abbiamo il problema. È lui che non studia!”. Se sapesse…!

Un altro uomo ha detto: “Ah, padre, io non vengo in chiesa perché tanto tutte le messe sono uguali!”. “Ma ha provato a venire una volta?”. “No, perché lo so già com’è!”.

 

E cosa succede ad un presuntuoso? È la storia della rana e del bue. C’è una rana che vede un bue. Allora si gonfia per essere come il bue. “Sono come il bue?”, chiede alle altre rane. “Ma neanche per sogno!”. Allora si gonfia di più: “E adesso!”. “Non se ne parla neanche!”. Allora si gonfia ancor di più: “E ora?”. “Ma neanche lontanamente!”. Allora prende tutta la sua forza e si gonfia all’inverosimile… e scoppia!!!

“La presunzione può gonfiare un uomo, ma non lo farà mai volare” (J. Ruskin).

 

È interessante, però, che la presunzione ci attira. In uno degli esperimenti dello studio, i partecipanti hanno guardato un video di un uomo che, in un bar all’aperto, metteva i piedi sulla sedia, buttava in terra la cenere della sigaretta e ordinava qualcosa in modo sgarbato. I partecipanti hanno ritenuto più probabile che l’uomo fosse “in grado di prendere decisioni” e capace di “farsi ascoltare dagli altri” rispetto a quelli che avevano visto un altro video con lo stesso uomo che si comportava educatamente.

 

40Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.

Questo detto lo troviamo nei vangeli con interpretazioni diverse varie volte (Lc 6,40; Mt 10,24-25; Gv 13,16; 15,20). È difficile, quindi, per noi, capire cosa voleva dire nella bocca di Gesù. Probabilmente si riferisce a discepoli che, come spesso succede nei vangeli, si consideravano di più, superiori, maestri degli altri.

 

CHE SIA BEN PREPARATO=katartizo vuol dire “ben preparato, perfettamente preparato, preparato nello stesso modo” e indica quando una nave ha tutto, è pronta per salpare.

Cosa può voler dire per noi questo detto di Gesù?

  1. Se nessun discepolo è più del Maestro, allora vuol dire che siamo tutti “alla pari”. Nessuno deve mai credersi di più degli altri (e sarebbe in linea con il messaggio precedente).
  2. Se uno, preparatissimo, sarà come il suo maestro, allora questo vuol dire che nessuno è più di Gesù. Al massimo si è come Lui.
  3. A me questo detto dice però dell’altro.

 

Il maestro è colui che tu stimi, colui che ti nutre nell’anima, colui che crede in te, colui che ti aiuta ad essere il meglio di te, che ti spinge a realizzarti, ad osare, ad uscire fuori, a brillare. Il maestro è colui che vuole che tu divenga un altro maestro.

Il mio maestro è stato il mio modello, il mio riferimento, colui che è stato come “un padre e una madre” per me. Io ho un debito con lui: lui mi ha dato qualcosa che io non potrò mai ricambiare (né superarlo). Il mio maestro mi ha insegnato tutto ciò che sapeva, che conosceva: è stato molto generoso con me. E quello che mi ha dato me lo ha dato gratis: me l’ha regalato.

Il mio maestro è stato mio maestro perché non mi ha insegnato tanto il sapere, ma l’amore per il sapere. Questo è meraviglioso: chi ti insegna il sapere ti fa dipendente da lui (se non c’è lui non impari) ma chi ti insegna l’amore per una cosa, ti insegna una cosa senza aver bisogno di lui.

Se mia madre mi ha messo al mondo, lui mi ha dato la vita. Io, discepolo, non sarò mai più del maestro: io non posso dare a lui quello che lui ha dato a me. Nello stesso tempo (se ben preparato) posso essere come lui: “Lui ha dato la Vita a me e io posso darla ad altri”. Da questo punto di vista “ognuno, ben preparato, è come il suo maestro”.

Non sforzarti di seguire le orme dei maestri: cerca ciò che essi cercavano” (Ma-tzu).

A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta” (Alessandro Magno).

 

Chi è/sono il mio maestro? Da chi imparo? Chi sono i miei modelli? (“Da chi tu stimi ti dirò cosa diventerai”). Un uomo senza maestri è un morto che ha smesso di vivere.

Di chi sono maestro? E… sono ben preparato o sono una guida cieca?

 

Gianni Rodari racconta questa favola: “C’era una volta un cane che non sapeva abbaiare. Allora andò da un lupo a farselo spiegare, ma il lupo gli rispose con un tale ululato che lo fece scappare spaventato. Andò da un gatto, andò da un cavallo, e – mi vergogno a dirlo – perfino da un pappagallo. Imparò dalle rane a gracidare, dal bove a muggire, dall’asino a ragliare, dal topo a squittire, dalla pecora a fare « bè bè », dalle galline a fare coccodè. Imparò tante cose, però non era affatto soddisfatto e sempre si domandava (magari con un « qua qua »…): – Che cos’è che non va? Qualcuno gli risponda, se lo sa. Forse era matto? O forse non sapeva scegliere il maestro adatto?

Visto che di qualcuno inevitabilmente sarò discepolo, voglio scegliermi bene i miei maestri.

 

41Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? 42Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Anche questo detto lo troviamo altrove nei vangeli (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42; Vang. Tom. 26). Era un modo di dire che girava, diffuso, a quel tempo: “Se uno ti dice: “Togli la scheggia dal tuo occhio”, tu rispondigli: “Togliti la trave dal tuo!””.

GUARDI=blepo, guardare, indica un’osservazione non casuale ma il prestare attenzione. È presente, quindi l’azione continua: è uno che sta lì sempre a guardare cosa fa l’altro.

PAGLIUZZA=karphos, vuol dire scheggia (vuol dire anche ramo, ed è il ramoscello che la colomba porta a Noè (Gen 8,11), ma qui non ha questo senso). Indica qualcosa di piccolo rispetto a qualcosa di grande (trave); la scheggia di legno è una piccolissima parte della grande trave. Ma indica pure qualsiasi cosa di piccolo, un corpo estraneo, che entra nell’occhio.

NON TI ACCORGI=katanoeo=non avvertire, non percepire, non osservare con attenzione.

TRAVE=dokon, indica la grossa trave di sostegno, utilizzata come trave principale per il pavimento o il tetto.

A quel tempo la Bibbia diceva: “Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui” (Lv 19,17). Ma qui Gesù sembra dire: “Nessuno giudichi nessun altro!”.

FRATELLO=adelphos, fratello. Viene detto per 3 volte: indica una totalità. L’altro non è qualcuno da giudicare ma un fratello da amare, da comprendere, su cui usare tenerezza e misericordia.

IPOCRITA=l’ipocrita era la persona che lavorava nei teatri e si copriva il volto con una maschera. Gli ipocriti spesso sono i farisei che pensano di essere giusti e disprezzano gli altri (Lc 18,9; Mt 5,20; 6, 2.5.16, ecc.). Sono tutti coloro che sono ipercritici e giudicano gli altri ma non guardano dentro sé stessi.

Atha Mossana, che dal 759 al 779 regnò sulla Sogdiana, la regione asiatica corrispondente agli attuali Uzbekistan e Tagikistan, portava giorno e notte una maschera per non far vere che aveva perso un occhio in battaglia. L’ipocrita è uno che indossa una maschera, un attore che nasconde la sua vera natura, o che è cieco alle proprie colpe.

COME PUOI DIRE=togliere la pagliuzza è davvero impossibile per chi ha una trave nell’occhio: “Ma come ti permetti? Con quale diritto?”. La frase denota chiara disapprovazione e rifiuto.

 

Se uno ha una trave su un occhio, ci vede male? No, proprio non ci vede! Quindi non dire nulla sull’altra persona perché tu non ci vedi! È come se oggi un oculista cieco volesse curarti gli occhi: ma come pensa di fare? Perché nel momento in cui tu ti accorgi di avere una trave nell’occhio sicuramente la pagliuzza nell’occhio del fratello ti sembrerà niente.

 

Cosa vuol dire questa parabola?

  1. Prima di dire una cosa guarda se ci vedi chiaramente. Spesso siamo ciechi e ci permettiamo di giudicare gli altri. Ma come ti permetti di farlo… vista la tua trave nell’occhio? Ma che ne sai tu della vita dell’altro?

Mario è un uomo che urla e quando sua moglie gli chiede di calmarsi lui prende, sbatte la porta e se ne va. Le amiche della moglie le dicono: “Ma lascialo, è un uomo cattivo! Non vedi che caratteraccio!”. Ma che ne sai tu? Come ti permetti di giudicare e di consigliare! Mario, le ha sistematicamente “prese” da piccolo da suo padre, e dentro ha accumulato una rabbia feroce. Ma è un buon uomo, ha un cuore grande ed è anche sensibile e affettivo con lei e con i figli. Forse, va aiutato… e capito.

Se non vedi… se non sai… se hai una trave nell’occhio… non dire nulla.

 

  1. Il metro con cui giudichi gli altri applicalo anche a te stesso.

Pagliuzza e trave sono io quando ho metri di giudizio diversi: vedo poco poco il mio e tanto tanto l’altro.

Quando un altro non fa qualcosa è troppo pigro; ma quando io non lo faccio, sono troppo occupato.

Quando un altro si affretta a fare qualcosa senza che glielo dicono, sta oltrepassando limiti; ma, quando io mi affretto e faccio senza che me lo dicano, questa è iniziativa.

Quando un altro difende fermamente la sua opinione, è ostinato; ma, quando esprimo io con forza la mia opinione, sono determinato.

Quando un altro non rispetta l’etichetta, è rozzo; ma, quando io faccio lo stesso, sono anticonformista.

Quando un altro fa qualcosa che piace al capo è un ruffiano; ma, quando lo faccio io, sono uno che collabora.

Quando un altro ha successo, sicuramente è solo fortuna; ma, quando questo succede a me, sono un uomo che ha lavorato duramente

 

  1. Quello che condanni negli altri (lett. scheggia di una trave) è nient’altro ciò che tu hai già (trave), e anzi: molto più grande solo che non vedi. Sei molto più rapido e acuto a giudicare i piccoli errori e i difetti degli altri, piuttosto che a farti un’autoanalisi e a condannare i tuoi grandi errori, difetti e peccati. C’è qualcosa che non ti piace di te: te lo nascondi, lo vedi negli altri e, siccome non ti piace in te, lo condanni e attacchi gli altri. Anzi, spesso, diventi un fanatico di questo.

Un esempio nell’A.T. della pagliuzza e della trave si trova quando il re Davide, nel punto moralmente più basso nella sua vita, prese la moglie di Uria e commise adulterio con lei. Quando Betsabea rivelò a Davide che era incinta, Davide tramò e fece uccidere Uria. Il Signore mandò Natan da Davide e gli raccontò la storia di un uomo ricco con enormi greggi di pecore che vivevano accanto a un uomo povero. Il poveretto aveva solo una piccolina agnellina che amava come una figlia, ma l’uomo ricco, la prese e la cucinò per un suo ospite.

Davide era furioso e disse che quell’uomo doveva morire e doveva pagare quattro volte il valore dell’agnellina. Natan, disse a Davide che lui era quell’uomo! Davide aveva guardato la pagliuzza nell’altro, ma non la trave nell’occhio suo! (2 Sam 12,1-7).

Una persona una volta disse al pastore James Montgomery Boice: “Se il diavolo non è in grado di distruggere la testimonianza del cristiano facendolo apatico, egli cercherà di farlo, facendo di lui un fanatico”.

 

  1. Hai bisogno di vedere il male/limite degli altri (pagliuzza) perché attutisce ciò che non vuoi vedere dentro di te.

Si chiama proiezione ed è un meccanismo (automatico) che ci protegge dal riconoscere le nostre stesse qualità indesiderabili, facendole attribuire in modo esagerato agli altri.

Un uomo è super critico con tutte le persone che nella sua comunità fanno qualcosa: “E perché non si è fatto così? E come mai lui ha fatto così? E non si poteva fare diversamente?”. Cosa accade dentro di lui? Siccome lui non vuole far niente, non vuole responsabilità e soprattutto non vuole mettersi al centro per poi ricevere le inevitabili critiche (senso di colpa latente per questa cosa), attutisce, addolcisce il suo non far nulla accusando e attaccando gli altri. Come se dicesse: “Io non faccio niente (questo in realtà non se lo dice!) ma in fondo anche gli altri fanno poco e male!”.

Sono critico e scortese verso gli altri: così per non percepire questo dolore trovo ogni scortesia o anche la più piccola mancanza di attenzione degli altri.

Siccome sono iroso e attaccabrighe con gli altri, trovo ogni minima mancanza di rispetto degli altri per nascondermi il mio caratteraccio.

Siccome sono uno che cerca scorciatoie nella vita, mi infurio quando i miei alunni copiano.

Siccome sono uno che col pensiero è sempre nella sessualità, mi indigno con i comportamenti sessuali degli altri.

 

  1. Portare il giudizio non serve mai. Solo l’amore può cambiare le cose.

Un ragazzo, veramente discolo, che “ne combinava di tutti i colori”, sistematicamente veniva schiaffeggiato da suo padre. Poi un giorno, il suo professore, di fronte all’ennesima grave marachella gli disse: “Ti meriteresti una sberla e una sospensione ma voglio farti vedere che nella vita c’è anche qualcos’altro”, e non lo punì in nessun modo. E lui, anni dopo disse: “In quel giorno capii che non meritavo solo di prenderle ma anche di essere amato”.

Un apologo indiano dice: “Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono con durezza condannandolo. Il maestro, invece, taceva e non reagiva. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: “Non si può far finta di niente dopo quello che è accaduto! Dio ci ha dato gli occhi!” Il maestro, allora, replicò: “Sì, è vero, ma ci ha dato anche le palpebre!””.

 

43Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono.

Possiamo riconoscere il cuore di un uomo? Perché ci si può ingannare! La risposta è: “!”.

BUONO=kalos, vuol dire sia bello che buono, eccellente, funzionale, gradevole e, quindi, indica un frutto commestibile, mangiabile.

CATTIVO=sapros=marcio, inutilizzabile, cattivo, scadente e che quindi non si può mangiare.

FRUTTO=karpon; in ebraico peri indica tutto ciò che viene prodotto: la pianta che spunta dal suolo; il frutto che esce dalla pianta; il prodotto del frutto (es. il mosto o l’olio); il seme che fuoriesce dal frutto; il nutrimento per gli uomini.

Quindi il frutto non è solamente ciò che l’uomo dice ma anche quello che fa, ogni azione, ogni pensiero, ogni cosa che lo riguardi.

Qui c’è allora la prima regola: nessuna pianta può produrre frutti diversi dalla propria condizione. Se sei amore “produrrai” amore; se sei rabbia “produrrai” rabbia; se sei odio “produrrai” odio.

 

44Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.

Qui vi è uno spostamento della prospettiva: dalla produzione alla raccolta.

DAL…=ek, da dentro a fuori, dall’interno all’esterno (è il movimento di uscita, di gettar fuori) appare in queste righe 5 volte: 1) dal frutto; 2) dal rovo; 3) dal tesoro buono; 4) dal tesoro cattivo; 5) dalla sovrabbondanza del cuore.

Questo è il senso della parabola: poiché uno ha dentro delle cose (ek) non possono che uscire queste; quindi, da quello che esce, capisco cosa uno ha dentro.

Ecco la seconda regola, conseguente dalla prima: si può riconoscere gli alberi dai loro frutti. Se trovo fichi so che quell’albero è un fico, se trovo uva so che quell’albero è una vite. I frutti fanno capire l’essenza della persona.

 

45L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.

La metafora adesso viene applicata agli uomini: l’albero è l’intimo dell’uomo e i suoi frutti ciò che dice. Da quello che uno dice tu capisci cos’ha dentro.

TESORO=thesauros è il deposito, il magazzino, da cui tesoro. Il senso qui è che uno tira fuori dal magazzino, dalla dispensa quello che c’è in magazzino e non può tirare fuori ciò che non c’è, evidentemente.

BOCCA=viene raffigurata come un vaso dove esce ciò che uno ha dentro.

CUORE=per un ebreo il cuore è la mente.

 

Un uomo si trova, poco prima dell’operazione, nella sala operatoria per un tumore alle corde vocali. Il chirurgo gli spiega la situazione e ciò che farà: “Lei ha una forma piuttosto grave di carcinoma alle corde vocali. Lei sicuramente vivrà perché lo possiamo estirpare e così le salveremo la vita, ma lei non potrà più parlare…”.

Il medico si ferma e gli dice: “Adesso gli faremo l’anestesia e quando si risveglierà non parlerà più. Ha un’ultima parola da dire?”. Il paziente rimane un po’ in silenzio, poi dice: “Non ho niente da dire perché posso continuare ad amare anche senza le parole”.

Cos’aveva dentro quell’uomo? L’amore!

Un uomo sta parlando con il suo psicologo di suo figlio: “Lo amo da morire quel bastardo! È che è un pezzo di m…, bisognerebbe cambiargli la testa”. Cos’ha dentro quest’uomo?

 

C’è una storia che racconta che un cane nel suo vagabondare finì in una stanza piena di specchi da ogni lato. Così si vide circondato da cani da tutte le parti e iniziò a digrignare i denti: tutti i cani allo specchio fecero esattamente la stessa cosa. Così il cane iniziò ad attaccare gli altri cani, che a loro volta, rispecchiandolo, lo attaccavano. Finì a terra tremante e ferito per l’urto contro uno specchio.

Se avesse sorriso e scodinzolato, sarebbe stata una festa!

Guardati attorno: so che è difficile ammetterlo, ma quello che ti succede attorno è “specchio” di ciò che sei tu.

Se sei un ladro ti circonderai di gente così; se ti piace bere ti circonderai di alcolisti; se ti piace attaccare briga ti circonderai di persone arrabbiate; se ti piace spettegolare ti circonderai di persone simili.

Spesso le persone dicono: “Non mi conosco!”. Non è un problema: “Guarda chi hai attorno, e conoscerai molte cose di te”.

 

Un giorno il re chiamò il saggio di corte e gli pose questa domanda: “Senti saggio, dimmi un po’, ma com’è veramente il mondo? È buono o cattivo? Aiutami a capire!”. Il saggio gli disse: “Mio sire, dipende!”. “Dipende da cosa?”. “Glielo faccio vedere!”.

Il saggio fece chiamare due dei suoi ministri. Al primo, che era conosciuto per la sua tirchieria, per la sua rigidità, per il suo narcisismo, disse: “Vai nel mio regno e portami qua tutti gli uomini veramente buoni che trovi”. Al secondo, che era conosciuto per la sua bontà, per la sua magnanimità, per la sua generosità disse. “Vai nel mio regno e portami qua tutti gli uomini veramente cattivi che trovi”.

Il re era curioso di chi e quanti uomini avrebbero portato. Dopo 6 mesi entrambi tornarono senza nessun uomo con loro. Il re non comprendeva. Il primo ministro disse: “Non c’è nessun uomo veramente buono nel suo regno”. Il secondo ministro disse. “Non c’è nessun uomo veramente cattivo nel suo regno”.

Allora il re disse: “Ma come… sono le stesse persone! Sono buone o cattive?”. Al che intervenne il saggio: “Gliel’avevo detto re che dipende!”.

E il re: “Sì ma dipende da cosa?”. E il saggio: “Ognuno vede gli altri secondo ciò che ha nel suo cuore!”.

 

Confucio duemilacinquecento anni fa diceva:

“Se vuoi cambiare il tuo paese, devi prima cambiare la tua provincia;

se vuoi cambiare la tua provincia, devi prima cambiare la tua città;

se vuoi cambiare la tua città, devi prima cambiare la tua tribù;

per cambiare la tua tribù, devi prima cambiare la tua famiglia.

Se vuoi cambiare la tua famiglia, devi prima cambiare te stesso”.

È il dentro che determina il fuori.

 

 

Pensiero della settimana

Nessuno è così vuoto come coloro che sono pieni di sé.