Fico sterile

III domenica del tempo di Quaresima

Domenica 24 marzo 2019

Prima lettura: Es 3, 1-8. 13-15    Salmo: Sal 102       Seconda lettura: 1 Cor 10, 1-6. 10-12       Vangelo: Lc 13, 1-9

 

 

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.

IN QUELLO STESSO MOMENTO=quale momento? Poco prima dei brani di oggi Gesù aveva detto: “E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,57). Gesù vuole rendere le persone libere, mature: una persona libera pensa con la propria testa.

Le persone infantili, invece, sono sempre dipendenti dal pensiero di un’autorità, di un capo, sempre incapaci di discernere su cosa fare, su quello che è bene e quello che è male e devono sempre avere bisogno del parere autorevole di qualcuno.

Gesù, invece, invita a ragionare con la propria testa. Questo è estremamente pericoloso, specialmente nell’ambito religioso.

Tutte le volte che nei vangeli Gesù dà la libertà alle persone, soprattutto quella mentale, intervengono i suoi nemici per fermarlo.

SI PRESENTARONO=Lc non ci dice chi siano.

A RIFERIRGLI=è un avvertimento minaccioso.

Non abbiamo notizie storiche di quest’episodio che avvenne durante la Pasqua. Poiché nella festa di Pasqua molti pellegrini andavano a Gerusalemme, Pilato, per prevenire eventuali tumulti, ordinò un’esecuzione esemplare compiuta durante il sacrificio. Il gesto è doppiamente sacrilego: sia perché compiuto nel tempio che viene sconsacrato, sia perché vengono violate le offerte (i sacrifici), i doni consacrati a Jahwe (Korban).

DI QUEI GALILEI=al tempo di Gesù, per Galilei non si intendevano soltanto persone provenienti da quella regione, ma tutte le teste calde. Infatti, i rivoltosi, gli zeloti, i rivoluzionari, i terroristi dell’epoca, erano quasi tutti della Galilea (ad esempio, si ricordavano ancora le gesta di Giuda il Galileo, nato al tempo di Gesù, come troviamo negli Atti degli Apostoli).

IL CUI SANGUE PILATO=Pilato e i suoi predecessori erano conosciuti per i loro eccidi e la loro crudeltà. Pilato, in uno dei vari eccidi, uccise più di 1.500 persone (per quel tempo una cifra enorme!).

AVEVA FATTO SCORRERE INSIEME A QUELLO DEI LORO SACRIFICI=è una minaccia: “Tu sei Galileo: stai attento te, caro, perché qua i Galilei fanno una brutta fine. Hai presente quello che è successo a quei Galilei là: tu, che sei Galileo, farai la stessa fine!”.

 

2 Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?

CREDETE=il primo esempio glielo hanno detto, questo lo cita lui stesso. Anche questo fatto è sconosciuto.

CHE QUEI GALILEI FOSSERO PIÙ PECCATORI DI TUTTI I GALILEI PER AVER SUBITO TALE SORTE?=Gesù non si lascia intimorire e neanche intimidire ma passa al contrattacco.

 

Per capire queste parole noi dobbiamo capire la mentalità del tempo.

La Bibbia credeva che il male, le disgrazie fisiche, gli infortuni, capitassero perché l’uomo aveva peccato nel cuore.

Gesù invece: “Quelli che sono morti non sono mica più colpevoli di voi!” (13,2.4). “Non sono morti per espiare le colpe personali e non credete di essere meno colpevoli di loro”.

Non funziona così: “Tu fai il male e Dio ti punisce”. E su questo iniziamo tutti ad essere d’accordo. Dico “iniziamo” perché fino a qualche anno fa (e tuttora negli strati profondi della psiche) alcune persone credevano che se avevano qualcosa di male era perché se l’erano meritato, perché Dio li aveva puniti. L’equazione era: sei stato punito perché hai disobbedito.

Ricordo un anziano con un tremolio ad una mano persistente. Mi aveva confidato che era stato perché una volta con quella mano aveva tirato un pugno a sua moglie ed era finita in ospedale: “Vede, Dio mi ha punito, occhio per occhio, mano per mano”.

Pensate alle espressioni: “Dio mi ha castigato; me lo sono meritato”. Quando diciamo: “Cos’ho fatto di male per meritarmi tutto ciò” sottintendiamo questa mentalità: fai il male e Dio ti punisce.

 

3 No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.

NO, IO VI DICO, MA SE NON VI CONVERTITE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO=“Io farò una brutta fine? Voi farete una brutta fine se non vi convertirete, cioè se non cambiate orientamento della vostra esistenza”. In che senso moriranno lo stesso? E’ un augurio? No!

 

CONVERTITE=metanoeo, cambiare pensieri. Cos’è che Gesù ha sempre predicato: “Convertitevi (metanoeo) e credete al vangelo” (Mc 1,15). Questo è il centro del suo vangelo. Allora, cosa succede? Che anche se tu continui a vivere ma non cambi dentro, non operi delle trasformazioni interiori, non ti “accendi dentro” (poco prima Gesù ha detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra” Lc 12,49), se tu, quindi, sei morto dentro, fai la stessa fine di quelli che sono morti fisicamente.

Per Gesù e per il vangelo, la morte non è la fine fisica ma quella condizione (quindi uno può ancora respirare) dove tu non sei più vivo, non sai più emozionarti, non sai più amare, non sai più donare, non hai più né compassione né entusiasmo (=il regno di Dio).

 

Gesù qui pone una profonda domanda: “Sei vivo?”. Non mi chiede: “Respiri? Il tuo cuore batte?”. Non è questo che intende per essere vivo.

Essere vivo vuol dire avere vitalità, energia (en-erg-ia; en=uno; erg=unire, legare; è quella forza che vuole che tutti si leghino; è l’amore!), vuol dire saper vibrare, saper emozionarsi, saper usare amore (compassione, misericordia, tenerezza), vuol dire saper perdonare, vuol dire avere un volto luminoso e splendente, occhi brillanti. Vuol dire avere una pace interna.

Perché molti dei vivi, dice Gesù, sono morti. Sono in vita ma la Vita li ha già lasciati.

Giorgio Faletti in una canzone dice: “Fa che la morte mi trovi vivo”.

Ma che uomo sei? Ma non vedi che sei pieno di paura?! Hai paura perfino di cosa dice la gente; hai paura di rimanere da solo; hai paura di deludere, di non andar bene; hai paura di essere rifiutato dai superiori, dai tuoi capi… ma che uomo sei? Guarda Gesù! Sei vivo: resta vivo; non morire prima. Non permettere che la paura ti uccida!

Patrick Henry, protagonista della rivoluzione americana che denunciò la corruzione dei funzionari pubblici e rivendicò i diritti degli abitanti delle colonie, quando fu catturato dagli inglesi e fu messo di fronte alla scelta di rinunciare alla rivoluzione e di unirsi agli inglesi o di essere fucilato come traditore, disse: “Datemi la libertà o datemi la morte”. Dove trovò questa forza?

Dove si trovano uomini così? Appassionati, infuocati, radicali, che non cedono, che non indietreggiano, che non si vendono, che non scendono a compromessi, che sono disposti a pagare per le idee e per le proprie azioni?

 

4 O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

O QUELLE DICIOTTO PERSONE=il primo esempio glielo hanno, detto questo lo cita lui stesso. Anche questo fatto è sconosciuto. Finora Gesù ha parlato di Galilei ma adesso parla proprio degli abitanti di Gerusalemme, cioè parla direttamente ai suoi interlocutori.

 

SULLE QUALI CROLLÒ LA TORRE DI SILOE=questo episodio riguarda un altro fatto di cronaca: la caduta di una torre situata nella zona di Siloe aveva provocato 18 morti.

A questi (e a tutti quelli) che vedono una relazione tra il peccato e il castigo, cioè che vedono queste disgrazie come un castigo di Dio, Gesù dice: “No cari, vi sbagliate assai. Dio non punisce nessuno; Lui è venuto per dare la vita e non per toglierla, per far nascere e non per far morire”.

Gesù, dicendo questo, prende le distanze dal Battista. Infatti, questo aveva dato un’immagine del Messia come del punitore, del giustiziere: “Colui che aveva l’ascia in mano per cui ogni albero che non portava frutto lo avrebbe tagliato e gettato nel fuoco”. Mi dispiace, Gesù non è così!

Ed ecco quindi la parabola susseguente che spiega come è Gesù, il Messia di Dio. Gesù è un Messia “pieno d’amore”.

 

Dio ti castiga

 

Questo vangelo dice: non c’è nessuna relazione tra peccato e castigo di Dio.

L’amore di Dio splende su tutti: sui buoni perché il suo amore sia la loro forza e sui cattivi perché il suo amore riscaldi i loro cuori.

Se ti succede una cosa, non pensare: “E’ così perché ho peccato… me la sono meritata!… ben mi sta!”.

Dio non ti manda nessuna disgrazia perché Dio non ti castiga. Mai! Dio solo perdona, solo ama.

 

Dio castiga il suo Figlio per non castigare te

 

La mentalità degli ebrei (Dio ti castiga) è stata per tanti anni la nostra mentalità. Tu hai peccato: meriteresti il castigo. ma Dio, nel suo amore (che amore sia questo, poi, non si sa!), castiga il suo Figlio, che espia, morendo in croce, tutti i peccati, tuoi e quelli del mondo.

Quante volte abbiamo sentito la frase. “Dio è morto per i nostri peccati. Dio è andato in croce per espiare le nostre colpe”! Che voleva dire: “Tu hai sbagliato, hai peccato, hai fatto qualcosa di cattivo e lui per salvarti (altrimenti finivi all’inferno) ha dovuto morire per te”.

“Lui è morto per i miei peccati? Ma se io dovevo ancora nascere?”, ha detto un giorno un ragazzo del catechismo. Il bambino che sente dire che Cristo è morto a causa dei suoi peccati non ha la capacità di discernere, di rendersi conto, che non si tratta dei suoi. Semplicemente si sente cattivo. Pensa: “Se lui ha sofferto è colpa mia”. Ma come si può sentire uno così? Non si sentirà terribilmente in colpa? Uno si sentirà sempre sbagliato. E che Dio è quello che vuole la morte di suo figlio? Da un Dio così (un Padre che vuole la morte dei suoi Figli) è meglio stare alla larga!, che si vive di più!

 

Quando andavamo a catechismo il cappellano mi diceva: “Gesù ha sofferto per te! Gesù è morto per te”. Che angoscia: io ho fatto soffrire Gesù!

Quando, invece, andavo a casa, mia mamma mi diceva: “Fai piangere Gesù quando non ti comporti bene!… Gesù ti vede quando fai queste cose… mi fai morire… mi manderai in manicomio… con tutti i sacrifici che io e papà facciamo per te…”. Gesù mi stava davvero antipatico!

Ma cosa stava dicendo mia madre? Stava dicendomi: “Non ce la faccio a gestirti”, Ma io capivo: “Io sono cattivo perché la mamma sta male per colpa mia”. Io non riuscivo a capire cosa voleva dire: “Non ti comporti bene”. Cosa vuol dire? Quando non mi comporto bene? Era una generalizzazione e io pensavo di non comportarmi bene “sempre”. Se mi avesse detto: “Quando tiri le orecchie al cane non va bene; quando non vieni a tavola ed è pronto non va bene; quando dici le parolacce non va bene”, allora sì che avrei capito. Ma non capivo, quindi continuavo a rifarlo e non andava mai bene. Così ho imparato che io non andavo bene e che se la mamma soffriva era colpa mia. E ho pure imparato che, visto quel che ho fatto (soffrire Gesù e la mamma), come posso divertirmi, ridere, concedermi tempo per me, giocare, fare delle cose piacevoli?

No, devo essere sempre tutto e solo per gli altri, e lavorare sempre, e fare sempre e per tutti (eccetto che per me (“mai stare con le mani nelle mani!”)): è un sottile senso di colpa perché nel mio profondo mi sento cattivo.

 

Fino ad arrivare a dire: Dio vuole che castighiamo

 

Una volta perfino si diceva: “Chi ama castiga”. E ci si sentiva in dovere e autorizzati a punire; anzi un buon padre puniva severamente “perché le piante storte bisogna raddrizzarle subito”. Ma che amore ci può essere in chi castiga, umilia, ferisce o usa violenza?

La punizione non insegna niente: insegna solo la paura. Non fai più quella cosa, non perché l’hai imparata, ma perché ne hai paura. La punizione fisica non è mai educativa; stabilisce solo che io sono più forte e che tu mi dovrai obbedire perché altrimenti “te le prendi”, cioè te lo impongo.

Intere generazioni hanno così imparato che amare è soffrire, stare male, accettare l’impossibile. Per amore si accettava l’alcolismo, “le botte”, le umiliazioni, i tradimenti, gli abusi. Perché “bisognava portare pazienza, perché se ne aveva merito davanti al Signore, perché si era dei bravi cristiani”.

Ma invece è il contrario: “Chi castiga non ama”. Chi ama non vuole mai il dolore, la sofferenza, l’umiliazione dell’altro.

 

 

Il castigo, la punizione crea solo senso di colpa

 

La punizione crea paura e senso di colpa.

Come si forma il senso di colpa (insano; c’è anche un senso di colpa sano!: se io picchio il mio cane, è “adeguato” che io mi senta in colpa, cioè che senta di aver ferito e fatto soffrire il cane)? C’è una regola: “Non si picchia il cane”. Poi c’è un comportamento che trasgredisce la regola: il bambino picchia il cane. Qui avviene il senso di colpa: “Ho fatto qualcosa che non dovevo fare”.

Quindi il senso di colpa è qualcosa che può essere veramente sano: se mi sento in colpa perché ho picchiato il cane, è sano!; se mi sento in colpa perché picchio mio fratello, è sano!, ecc. Perché devo imparare che certe cose non si devono fare perché sono pericolose o perché feriscono.

Ma ci sono varie questioni.

 

  1. La prima: chi stabilisce le regole? Cioè: quali regole?

Quand’ eravamo piccoli, i grandi hanno potuto farci sentire in colpa per tutto, anche per cose che non ci riguardavano affatto.

Se ti divertivi allora eri una persona sciocca! Regola: divertirsi è male. Se lo fai ti senti in colpa. Quindi: non lo fai e hai una vita serissima (tristissima).

Se ti piace il sesso allora sei “un poco di buono”. Regola: il sesso (con il compagno) è cattivo. Se lo fai ti senti in colpa. Quindi: lo fai solo per “dovere” ma non ti deve piacere.

Se sei allegro sei superficiale. Regola: non sorridere e non essere allegri. Quindi: parlare sempre di cose importanti, lavorare sempre, mai ridere e far festa.

Se prendi del tempo per te sei un egoista perché non pensi agli altri. Regola: il tempo per sé è egoismo. Quindi, se fai qualcosa che ti piace, ti senti in colpa.

 

Oppure pensate a che senso di colpa possono aver creato certe frasi.

“Io mi sono sacrificato per te”: è terribile! Vuol dire: “Io ho rinunciato alla mia felicità per te”, quindi, è sottinteso come messaggio: “Tu devi… tu non puoi… guai a te se…”. Un figlio può sentirsi incapace di ridere o divertirsi: come può essere felice se sua madre – dice lei! – si è sacrificata tutta la vita per lui?

Un giorno un padre ha detto al figlio: “Io ho sacrificato la mia vita per te!”, e il figlio: “Nessuno ti ha chiesto di farlo!”. E‘ vero! Non si può ricattare il figlio così. Un figlio lo si fa per amore.

 

 “Sono rimasta con tuo padre solo per te”: un figlio si sente in colpa dell’infelicità di sua madre. Per lui vuol dire: “Mia mamma si è sacrificata per me” e si sentirà sempre in debito. Come potrà diventare autonomo? Guarda cos’ha fatto sua mamma per lui! Ma il figlio non c’entra: se loro erano infelici, era una cosa che riguardava loro non lui.

 

Certe regole che ci hanno creato sensi di colpa erano problemi di altri.

Una famiglia ospitò il datore di lavoro del padre: per loro era un grande onore averlo a cena. Quando il datore arrivò con la moglie, il figlio di 4 anni non li salutò (era preso dai suoi giochi): “Vergognati! Cos’avranno pensato? Che non ti abbiamo insegnato l’educazione!”, gli disse fuori di sé suo padre. Ma la paura di non essere un buon padre e quindi di fare brutta figura era un problema del padre, non riguardava il figlio.

 

  1. La seconda: va punito (punizione) il comportamento non la persona.

Facciamo un esempio: mio figlio scrive sul muro di casa. Cosa succede se io gli dico: “Sei cattivo! Guarda cos’hai fatto!”. Gli dico: “Tu non vai bene; tu dovresti vergognarti; tu non vai bene perché hai scritto sul muro di casa”. Qui si sente umiliato: “Io faccio schifo. Guarda cos’ho fatto!”.

Cosa succede, invece, se io gli dico: “No, Pietro, sul muro di casa non si scrive. Adesso pulisci con me. Il papà ti vuole bene lo stesso ma questa cosa non si fa”. Gli dico: “Tu vai bene; l’amore del papà non lo perdi, ma questa cosa non si fa”. Quindi il rimprovero è sul comportamento non alla persona. Qui sente di aver sbagliato a fare una cosa: “Ho fatto una cosa che non dovevo fare”.

 

Facciamo un esempio: sei al telefono, è una telefonata importante, e tuo figlio di 4-5 anni continua a importunarti perché vuole questo, quello, quell’altro. Che si fa? Si va di là e gli si dice: “Adesso sto telefonando, lo vedi anche tu; è una cosa importante e puoi stare anche 5 minuti da solo; poi vengo”. Allora il bambino capisce che non c’è solo lui al centro del mondo.

Ma se quando ho finito la telefonata gli dico (magari facendo in fretta perché mi secca): “Vergognati”, lui non impara e la prossima volta lo rifarà, ma ciò che è peggio è che gli si passa: “Tu non vai bene; ti devi vergognare di te!”.

 

Un ragazzino prende di nascosto dei soldi dal portafoglio del papà. Beh, intanto bisogna chiedersi perché lo ha fatto. Certo è una cosa che non si fa, ma perché lo ha fatto? Magari tutti i suoi amici hanno dei soldi da poter gestire e lui, invece, fa le medie e non ha neppure un euro con il quale può fare ciò che desidera. Allora il suo messaggio è chiaro: “Ho bisogno di un po’ di libertà; ho bisogno di non dover mendicare sempre da voi”.

Detto questo, c’è molta diversità tra punizione e punizione. Deve imparare che non si fa. Ma come?

  1. Se gli tiro una sberla (come anche la sculacciata, la bacchettata, il digiuno o punizioni eccessive: tre mesi senza cellulare) cosa faccio? Punisco la persona, non il comportamento. Non solo: lo umilio perché gli dico: “Mi fai schifo per quello che hai fatto” e distruggo il suo valore come persona. Se poi un giorno sarà timido o insicuro non mi devo chiedere il perché.
  2. Sto distruggendo la relazione genitore-figlio. Lui pensa: “Lo fai solo perché sei più forte; ma crescerò e un giorno non sarai più capace di dominarmi”. Se poi da adolescente farà quello che vuole e non mi ascolterà più, non devo chiedere il perché.
  3. Non gli insegno la regola: “Fai schifo”, ma così non ti ho insegnato che non si fa e perché non si fa. Ti ho solo punito, ma punire non è insegnare. Se poi un giorno lo rifarà, con me o con altri, non mi devo chiedere il perché.
  4. Lo sto riempiendo di rabbia: “Ti odio – si vede dentro di sé – perché mi rifiuti come tuo figlio”. Se poi un giorno me la farà pagare rifiutandomi lui, a sua volta, non mi devo chiedere il perché.
  5. Potrei incentivarlo a rifarlo. Infatti, se io non do mai attenzioni a mio figlio (non gli chiedo mai coma va a calcio, cos’ha fatto con i suoi amici; mai gli dico: “Bravo! Grazie. Che cosa bella che hai fatto”, ecc.) e facendo così, ha visto che finalmente gli abbiamo dato attenzioni, che cosa imparerà? Che questo è l’unico modo per essere visibile e per avere attenzione da parte dei genitori. Quindi lo rifarà (rubando di più, per avere una maggiore attenzione ai nostri occhi)!

Quale potrebbe essere una punizione sana? Una punizione-rinforzo: “Sei nostro figlio, ti vogliamo bene e ci piaci molto. Adesso però hai rubato 50 euro dal portafoglio del papà. Poiché questo non si fa (e gli dico i motivi per cui non si fa), adesso ci darai una mano per 3 giorni nel far questi lavori in modo da ripagare ciò che hai sottratto”. Così impara che le cose hanno delle conseguenze, ma viene punito, sanzionato, il comportamento e non la persona.

 

6 Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.

UN TALE AVEVA PIANTATO UN FICO NELLA SUA VIGNA=all’inizio sembra che ci si debba identificare con questo padrone. Invece, il modello non è il padrone ma il vignaiolo.

Nei vigneti della Palestina si piantano anche alberi da frutto. Si lascia crescere l’albero per 3 anni e poi l’albero inizia a portare i primi frutti. Quest’albero, dunque, ha già 6 anni e non ha portato ancora frutto.

Il fico è un albero, insieme alla vigna, che rappresentano Israele. Qui c’è un velato rimprovero ad Israele.

E VENNE A CERCARVI I FRUTTI, MA NON NE TROVÒ=l’albero (Israele) non porta frutto.

Cosa dovrebbe fare secondo l’immagine del tempo, secondo quello che tutti pensavano e volevano? Che cosa avrebbe fatto il Messia d’Israele? Sarebbe venuto e lo avrebbe tagliato e bruciato.

Ma Gesù non è così. Il Signore non lo taglia e non lo butta nel fuoco. Lui è venuto per far vivere e non per far morire.

 

7 Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”.

ECCO SONO TRE ANNI=tre è un numero simbolico. E’ un modo per dire che il fico adesso è grande ed è pronto per dare frutto.

CHE VENGO A CERCARE FRUTTI SU QUESTO FICO, MA NON NE TROVO. TAGLIALO DUNQUE!=questa è la mentalità corrente. Questo è quello che pensano tutti. Questo è quello che farebbe il Dio del tempo dell’A.T.

 

8 Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9 Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

PADRONE, LASCIALO ANCORA QUEST’ANNO, FINCHÉ GLI AVRÒ ZAPPATO ATTORNO E AVRÒ MESSO IL CONCIME. VEDREMO SE PORTERÀ FRUTTI PER L’AVVENIRE; SE NO, LO TAGLIERAI=questo, invece, è il pensiero di Gesù: “No, proviamo ad arieggiare questo albero (zappargli attorno), dargli concime, ed aspettare uno, due, tre anni, cioè un tempo ben definito, per portare vita.

Il fico non richiede cure particolari, non ne ha bisogno in genere. Ecco perché il vignaiolo chiede di fare ciò che normalmente non si fa, tenta insomma un’ultima possibilità.

 

Il valore della pazienza

 

Questo vangelo ci invita ad aver pazienza.

La pazienza può avere un senso negativo: “Fatti andare bene le cose che non ti vanno bene!”. Qui la pazienza è rassegnazione, subire, adattamento.

Quando la mia vicina di casa “le prendeva” dal marito, il parroco le diceva: “Porta pazienza!”. No, qui non c’è nessuna pazienza da portare. Questo portare pazienza vuol dire accettare una violenza.

Il mio compagno di banco in prima media mi prendeva sempre in giro e mia madre mi diceva: “Abbi pazienza Marco!”. No, nessuna pazienza quando questo vuol dire farsi umiliare.

 

Ma la pazienza ha un valore anche molto positivo.

 

  1. Pazienza è saper rispettare il tempo delle cose.

Viene dal greco pasko (da cui pathos) e vuol dire sentire, sperimentare, soffrire. Indica il percepire, l’esperire una cosa.

La pazienza ci ricorda che ogni cosa ha un suo tempo e che non sta a noi stabilire il tempo.

Spesso le persone quando hanno un problema dicono: “Che cosa devo fare?”. Ci vuole pazienza, non nel senso di aspettare e basta, ma nel senso che bisogna comprendere i contorni del problema, lasciare che si svolga, darci il tempo per trovare noi le nostre soluzioni e per capire cosa vogliamo in quella situazione.

Chi vuole conoscersi deve aver pazienza: cioè darsi il tempo di, piano piano, scoprire chi egli è.

 

  1. Pazienza è stare sulle cose (perché si disvelino).

Le persone dicono: “Ho fretta di farlo!”. Capisco, ma le cose hanno il loro tempo! Comprendere chi è Dio, qual è la propria chiamata, cos’è l’amore, la verità, ecc, comprendere ogni grande verità della vita richiede pazienza. La pazienza è lo stare su quella cosa perché quella cosa possa apparirci nella sua verità, perché quella cosa si disveli.

“Se ho fatto qualche scoperta di valore, ciò è dovuto più ad un’attenzione paziente che a qualsiasi altro talento” (Isaac Newton).

“Non è che sono così astuto, è solo che rimango con i problemi più a lungo” (Albert Einstein).

Bisogna osservare pazientemente e con calma le cose, le persone e i fenomeni, per poterli capire. Bisogna donargli tempo. La pazienza è quell’allenamento giornaliero che ti permette di apprendere una cosa.

Federica Pellegrini ogni giorno pazientemente nuota 8 ore. Ha un grande talento naturale ma è l’allenamento quotidiano che l’ha fatta diventare campionessa mondiale. E’ la pazienza di stare su di una cosa che te la fa possedere.

Una sera dopo un applauditissimo concerto, il maestro Andrés Segovia, considerato il più grande chitarrista di tutti i tempi, fu avvicinato da un ammiratore che estasiato gli disse: “Maestro, darei la vita per suonare come lei!”. Andrés Segovia lo fissò intensamente e rispose: “E’ esattamente il prezzo che ho pagato io!”. Più una cosa è grande e più il costo è elevato.

 

  1. Pazienza è lasciar maturare le cose, è gradualità.

Quando si dice: “Ma non ci arrivi! Ma sei scemo! Io alla tua età queste cose le facevo già da un pezzo”, non diamo il tempo alle persone (e anche a noi stessi) di maturare, di crescere, di svilupparsi. Abbiamo delle pretese e noi vogliamo che siano già dove noi abbiamo stabilito. Solo che loro sono al loro livello di sviluppo e non a quello che noi vorremmo. Pazienza è: “Hai tutto il tuo tempo per diventare ciò che puoi diventare”.

“Un uomo vedeva un bruco che stava diventando farfalla. E vedendo la sofferenza di questa trasformazione, soffiò un delicatissimo alito caldo in modo che la cosa potesse avvenire più velocemente e con la minore sofferenza possibile. E fu così. Solo che il passaggio fu troppo veloce e le ali non si formarono a sufficienza per volare”.

Se tiri lo stelo di un fiore, non lo fai diventare più lungo, lo strappi. Se tiri il collo di un bambino, non lo fai più grande ma lo uccidi.

 

  1. Pazienza è prendere le distanze per avere una risposta adeguata.

Al lavoro, per strada, tra persone, quante volte si sentono frasi del tipo (e ben di peggio): “Va a farti benedire! Ti ho dato un po’ di tempo, adesso basta! Va in malora! Brutto figlio di…! ecc.”. Quante volte ci succede che siamo impazienti, ci arrabbiamo e in un attimo esplodiamo. Stiamo reagendo alla situazione.

Due automobilisti, entrambi un po’ colpevoli, rischiano ad una rotonda di scontrarsi. Frenano e non succede niente. Escono dalle auto, s’insultano e si mettono le mani addosso. Ma se avessero utilizzato un po’ di pazienza non sarebbero finiti in ospedale (per i pugni che si sono dati)!

La pazienza mi serve non a subire ma a prendere una sana distanza dalle reazioni immediate per agire e non per reagire: “Voglio fare proprio questo? Mi fa bene fare così?”.

Mia nonna, nella sua semplicità, mi diceva: “Prima di agire pensa dieci secondi!”.

 

  1. Pazienza è comprendere che i tempi dell’anima sono molto maggiori di quelli della mente.

La mente pensa in un attimo e in un attimo ti può portare, che ne so, in spiaggia anche a dicembre. Oggi col cellulare in un attimo senti un tuo amico che è in Islanda. Con Skype ne vedi un altro in Nuova Zelanda, ecc.

Ma il cuore e l’anima non hanno questi tempi. Hanno i tempi dell’anima e del cuore, che sono molto più lunghi. La mente in un attimo può dire a chi ami: “Ti lascio”. Ma quanto tempo ci vuole per lasciarlo veramente, col cuore, per sentire che siamo in grado di lasciar andare chi un giorno amavamo? A volte ci servono anni!

Un gruppo di trasportatori messicani portava a mano varie apparecchiature per alcuni studiosi che dovevano svolgere ricerche in luoghi poco accessibili. A un certo punto i trasportatori si fermarono assieme, senza dire nulla. Gli scienziati si stupirono, poi si irritarono, quindi si infuriarono. I messicani sembravano in attesa di qualcosa. Poi d’un tratto si rimisero di nuovo in moto. Uno di loro finalmente spiegò agli scienziati che cos’era successo: “Eravamo andati troppo veloci e ci eravamo lasciati indietro l’anima. Ci siamo fermati ad aspettarla”.

 

  1. La pazienza è libertà: rinuncio ad una cosa e accetto una frustrazione per ottenerne domani un vantaggio.

In questo mese rinuncio ai dolci per essere più in forma. Rinuncio al divano, anche se si sta bene, per non diventare sempre meno sportivo o tonico.

Gli scimpanzé sanno rinunciare a mangiare 2 chicchi d’uva subito se possono mangiarne sei fra due minuti.

Ecco la pazienza: rinuncio ad un bene subito per averne uno più grande poi.

 

  1. La pazienza è credere nell’altro.

Thomas Edison per trovare il filamento più adeguato per la lampadina elettrica fece migliaia di esperimenti ad esclusione. Dopo averne fatti 9.999, un amico gli chiese: “Hai forse intenzione di andare incontro a 10.000 fallimenti?”. Lui rispose: “Non sono fallimenti, sono scoperte; ho scoperto che anche questo non funziona”. E, infatti, alla fine, scoprì il filamento giusto. Questa è fede.

Siamo alla sagra e un bambino vuole dello zucchero filato. Il genitore: “No”. Così il bambino piange. Il genitore: “Puoi piangere finché vuoi tanto non te lo compro”. Il bambino piange ininterrottamente per un quarto d’ora. Allora il genitore estenuato, dice: “Va bene te lo prendo, purché la smetti”. Questa è fede.

Allora: se io non riesco una, due, tre, dieci volte, semplicemente ho pazienza con me. E quando faccio così mi sto dicendo: “Io credo in te”.

Se tu non ci riesci una, due, tre, dieci volte, semplicemente ho pazienza con te. E quando faccio così ti sto dicendo: “Io credo in te”.

 

Rielke in una meravigliosa poesia dice:

“Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e… cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera.

Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse.

E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.

Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta”.

 

Rinuncia oggi e rinuncia domani…

 

La parabola vuol dire: tu sei quel fico. Tu puoi portare frutto; tu puoi vivere in maniera feconda, puoi essere felice, puoi svilupparti e realizzarti. Questo tu lo puoi, come il fico può portare frutto.

La vita inoltre ti dà delle occasioni speciali, particolari, ti fa incrociare delle situazioni uniche perché questo avvenga. Nella parabola il vignaiolo si prende cura in maniera speciale di questo fico.

La vita, in certi momenti, dà in maniera diversa a tutti la possibilità di portare frutto. Tutti noi abbiamo avuto degli incontri che ci portavano in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci facevano respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci; dai che ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni (morte di un amico, di un caro; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc) che ci chiamavano a vivere diversamente.

Cos’abbiamo fatto in quelle situazioni? Perché rinuncia oggi e rinuncia domani, posticipa… rimanda… tralascia… abbandona… evita… rifuggi oggi e domani, verrà un giorno in cui non sarà più possibile. Ecco che l’albero verrà tagliato: non c’è più niente da fare.

 

Il fico viene tagliato perché dentro è morto, non c’è altro da fare. E’ così: se tu rifiuti certe proposte della vita viene un momento in cui sei così vuoto… così distaccato da te… così morto nell’anima… così incapace di guardarti dentro, che è troppo tardi. Non è un giudizio o una condanna di Gesù, è solamente una conseguenza delle nostre scelte: troppo tardi!

 

Un gatto era salito alto alto su di un albero. Nevicava molto e un uccellino gli diceva: “E’ meglio che scendi perché se il ramo si spezza io volo via ma tu non fai in tempo a scappare”. “Ma cosa vuoi che sia! Un fiocco di neve è nulla”. L’uccellino continuava a dirgli: “E’ meglio che scendi…” e il gatto continuava a rispondergli: “Un fiocco di neve in più non fa la differenza”. E così continuava a contare i fiocchi di neve che cadevano. 3.751.957… 3.751.958…3.751.959… e il ramo si spezzò e il gatto non poté che cadere rovinosamente a terra. Troppo tardi!

 

 

Pensiero della settimana

Non camminare davanti a me, potrei non essere capace di seguirti.

Non camminare dietro di me, potrei non essere capace di guidarti.

Cammina al mio fianco, e sii mio amico.