Parabola del figliol prodigo

IV domenica del tempo di Quaresima

Domenica 31 marzo 2019

Prima lettura: Es 3, 1-8. 13-15     Salmo: Sal 102       Seconda lettura: 1 Cor 10, 1-6. 10-12      Vangelo: Lc 13, 1-9

 

 

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.

PECCATORI=per peccatori si intendeva, a quell’epoca,       tutti coloro che non volevano o non potevano osservare tutti i dettami della Legge.

Quindi scribi e farisei accusano Gesù di non essere un maestro spirituale serio perché il suo comportamento, nei confronto dei peccatori, è contro tutta una tradizione biblica e religiosa del popolo d’Israele. I Salmi dicono: “Ah, se il signore sopprimesse tutti i peccatori della terra!” (Sal 139,19). L’idea di Dio, del Padre Eterno, era di colui che elimina il male, cioè i peccatori. E che fa Gesù? Li accoglie!

 

2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

I FARISEI E GLI SCRIBI=erano la “crema” spirituale del popolo. Attraverso preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile (cioè seguendo tutte le norme religiose, anche le più piccole) si ritenevano santi e migliori degli altri. Solo che così facendo si separavano dagli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori. Loro, questa gente, i peccatori, non solo non li avrebbero fatti venire in chiesa, non solo non li avrebbero assolti, ma li avrebbero sterminati… e s’intende, in nome di Dio! D’altronde si rifacevano all’A.T. che era abbastanza chiaro sulla questione: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati. Is 13,9: “Ecco il giorno del Signore arriva implacabile, con sdegno, ira e furore, per fare della terra un deserto, per sterminare i peccatori”.

Proprio per questo la religione è pericolosa: perché mentre Dio è disceso per incontrare gli uomini e lo si incontra proprio negli uomini, la religione ti distacca dagli uomini. Allora cosa succede: Dio scende, gli uomini salgono, così i “religiosi” non incontrano mai Dio. E, infatti, chi saranno coloro che condanneranno a morte Gesù? Proprio i religiosi. La religione rende atei perché rende senza cuore. Dove non c’è l’amore Dio non c’è.

Dicevano: “Tu sei puro? Sì. Allora puoi avvicinarti a Dio, andare in chiesa, ecc”. “Tu sei puro? No! Allora non puoi avvicinarti a Dio”. Quindi queste persone erano condannate, finivano all’inferno per i loro peccati e Dio le respingeva.

Solo che il Dio del vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Perché nel vangelo è Gesù che va dagli ultimi. D’altronde è ovvio: Gesù va da chi più ne ha bisogno (e da chi è disponibile ad accoglierlo). La religione dice: “Dio ce l’hai se te lo meriti. Se sei bravo, puro e righi dritto, allora Dio è con te”. Il vangelo dice un’altra cosa: “Non devi essere puro per avere Dio. Ma la sua accoglienza ti fa puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia… accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.

E proprio per far capire questo che Gesù racconta tre parabole (pecora perduta, dramma perduta, figlio perduto) dove chiarisce che Lui è venuto a cercare chi si è perduto. Perché tutti devono sapere che sono amati da Lui. Tutti devono sapere che Dio è un dono.

Il padre è ciò che Dio fa per tutti noi (che siamo il figliol prodigo). Che fa Dio per noi? Festa!

Il fratello maggiore sono gli scribi e i farisei, servi di Dio ma non figli. Al padre il maggiore dirà: “Ecco io ti servo (=doulein) da tanti anni e tu non mi hai mai dato un capretto…”. Ma se tutto era suo! La religione lascia le persone puerili che attendono sempre da qualcuno l’autorizzazione. La religione crea persone giudicanti, invidiose, di chi ha di più, riesce, è felice (“con le prostitute; tuo figlio…”). La religione non sa sorridere, né far festa, perché è corrosa dalla rabbia dentro (Lc 15,28: “Egli s’arrabbiò”).

COSTUI=uno pensa: “Beh, saranno contente le autorità religiose che uno riesca ad attirare gli ultimi, i lontani”. E, invece, no: i farisei e gli scribi “mormorano” cioè giudicano e disprezzano il comportamento di Gesù.

E osservate: lo odiano così tanto che neppure lo nominano, ma dicono: “Costui”. Vedete quanto sono disgustati dal comportamento di Gesù.

ACCOGLIE E MANGIA CON LORO=nel mondo palestinese tutti mangiavano da un unico piatto centrale. Quindi questo presupponeva una certa intimità, amicizia, perché si metteva la mano nello stesso piatto. Se una persona è impura, tu che metti la mano nello stesso piatto (si pensava a quel tempo) diventi impuro anche tu!

Quindi l’accusa che fanno a Gesù è che anche lui è impuro perché l’impurità dei peccatori si è trasmessa a Lui.

Non hanno capito la grande novità che Gesù ha portato, che cioè l’uomo non deve essere puro per avvicinarsi a lui, ma è l’accoglienza del Signore che rende pure le persone. Questa è la grande differenza tra la religione e la fede. Nella religione l’uomo non è degno di avvicinarsi al Signore perché è impuro; nella fede, invece, Gesù dice: “Accoglimi e diventerai puro”.

 

3 Ed egli disse loro questa parabola:

DISSE LORO=lett. è “per loro”, “non a loro”, cioè per i farisei e per gli scribi.

 

11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.

DUE FIGLI=i 2 figli sono diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti.

In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui.

Nati dallo stesso padre sono all’opposto proprio perché hanno lo stesso problema.

Il padre non è riuscito a trasmettergli l’amore perché entrambi lo sentono come un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.

 

12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze.

PADRE DAMMI LA PARTE DI PATRIMONIO=cosa gli sta dicendo il più piccolo? “Tu, per me sei morto. Il non voglio più avere a che fare con te. Tu, per me, non esisti più!”.

Le regole del tempo erano: il maggiore riceveva il doppio di tutti gli altri figli. Il maggiore (e gli altri figli) era già in possesso dell’eredità ma la riceve solamente alla morte del padre. Il padre, quindi, ne aveva l’usufrutto. Va ricordato che il maggiore, inoltre, ereditava non solo il doppio ma anche le proprietà in possesso del padre al momento della sua morte.

DIVISE LE SOSTANZE=il padre fa qualcosa “per amore”, perché finché era in vita tutto il patrimonio era suo. Nessuno lo costringeva e nessuno a quel tempo neppure lo faceva. Ciò che fa il padre era legale ma era sconsigliato (Sir 33,21-24). Anche il maggiore, quindi, ha la sua “giusta” parte. Quindi il maggiore ha ben molto di più del minore.

 

13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.

POCHI GIORNI DOPO=perché non è partito subito? Perché i beni sono in case, in campi e quindi ci vuole il tempo di convertire questo patrimonio in moneta contante.

PAESE LONTANO=chora macrà= “paese lontano” è una formula biblica che indica un paese pagano, quindi non si allontana soltanto dal padre ma si allontana anche da Dio, dalla religione e dalla tradizione familiare. Il minore non ne vuole più sapere di suo padre e della sua famiglia.

SPERPERO’ TUTTO=in casa ha raccolto tutto; fuori casa ha perso (dis-perso) tutto.

La capacità di gestione del patrimonio di questo figlio sono nulle e, infatti, dilapida tutto.

È questo il peccato del figlio: che tutto quel patrimonio, il frutto di lavoro, di sacrificio da parte del padre, lui in un attimo lo dissipa, lo disperde. Avendo dilapidato tutto quello che aveva ricevuto, dimostra anche di non essere una persona intelligente.

Ciò che dava il valore alla persona – in quell’ambiente, ma anche nel nostro – è la quantità di denaro che si aveva. Fintanto che aveva denaro è stato qualcuno; nel momento in cui non ne ha avuto più, non è stato più niente. Quindi, disperdendo il denaro ha perso anche la sua identità, anche lui è diventato un nulla. Col Padre imparerà che il valore è al di là di ciò che si ha e di ciò che si possiede: il valore è semplicemente quello che si è.

 

14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.

QUANDO EBBE SPESO TUTTO=è una regola di vita: i beni materiali non possono saziare la fame spirituale. Quando tu credi che “le cose o i beni o le ricchezze” ti possano saziare, inevitabilmente avverrà una grande carestia.

 

15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.

METTERSI A SERVIZIO=si attaccò=ekollethe=incollarsi. Il verbo viene usato nell’A.T. per indicare l’abbandono di Dio e l’adesione alle divinità straniere (1 Re 11,2; 2 Re 3,3).

UNO DEGLI ABITANTI DI QUELLA REGIONE=ha lasciato il padre e ha trovato un padrone.

MANDO’ NEI CAMPI A PASCOLARE I PORCI=è il massimo del degrado. In terra d’Israele era proibito l’allevamento dei maiali (Lv 11,7). Qui siamo in terra pagana e l’allevamento viene permesso. Ma che fa il giovane? Va a fare il lavoro più umiliante e più degradante, ma soprattutto un lavoro che lo rendeva impuro (il maiale era un animale impuro e chi lo toccava diventava tale).

 

16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.

AVREBBE VOLUTO SAZIARSI CON LE CARRUBE DI CUI SI NUTRIVANO I PORCI= ecco la condizione di questo ragazzo: quella di una bestia, quella di un porco, di una bestia immonda.

 

17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!

ALLORA RITORNO’ IN SE’=il giovane non si converte affatto. Fa solamente un ragionamento economico: “Lì, da mio padre, si mangiava, qui no.

Meglio tornare lì per mangiare qualcosa”. Quindi il ritorno non è dovuto dai rimorsi del dolore causato al padre, ma dai morsi della fame.

PANE IN ABBONDANZA=il cibo che avanza è una nota importante perché vuol dire che il padre non tratta i salariati secondo il dovuto ma con grande generosità, come dei figli propri, tanto che ne avanza! I servi vengono trattati come figli (“pane in abbondanza”) mentre i figli si sentono servi (il maggiore: “Da tanti anni ti servo” Lc 15,25 e il minore: “Trattami come uno dei tuoi salariati” Lc 15,19).

MUOIO DI FAME=tre volte ritornerà il verbo apollimi=morire (Lc 15,17.24.32). Tre=completezza.

 

18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;

GLI DIRO’=il figlio minore prepara l’atto di dolore.

HO PECCATO CONTRO IL CIELO=perché è diventato impuro. Era un crimine gravissimo: “Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me” (Es 32,33). Quindi, per quel tempo, questo figlio è stato cancellato dal libro della famiglia.

 

19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.

NON SONO PIU’ DEGNO DI ESSERE CHIAMATO FIGLIO=infatti, ha perso ogni diritto.

 

20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

QUANDO ERA ANCORA LONTANO=quindi se lo vede da lontano, cosa vuol dire? Che il padre, nonostante quello che aveva subito, lo aveva sempre aspettato. Il figlio ha rinunciato al padre ma il padre non ha rinunciato al figlio.

NE EBBE COMPASSIONE=splanchnizomai è un verbo tecnico che nella Bibbia indica l’atteggiamento solo di Dio.

 

Nel vangelo di Luca, questo verbo (splanchnizomai) c’è tre volte e sempre quando c’è una restituzione di vita.

  1. Gesù, quando vede la vedova di Nain e gli resuscita il figlio, dice: “la vide e ne ebbe compassione” (Lc 7,13). Quindi il vedere, da parte di Gesù, da parte di Dio, è sempre accompagnato da un’azione di restituzione di vita a chi vita non ce là.
  2. Nella parabola del Samaritano: il samaritano “lo vide” – il ferito – “e ne ebbe compassione” (Lc 10,33).
  3. In questa parabola: quando il padre vede il figlio tornare gli corre incontro, che tradotto è come dire che Dio, verso l’uomo peccatore, non sente ira, non resta sul trono ad aspettare che l’altro faccia penitenza e, inginocchiato, lo supplichi del perdono.

Dio non aspetta: è lui che vuole restituire vita e dignità.

 

GLI CORSE INCONTRO=nel mondo orientale (dove ci sono pochi soldi ma molto tempo, al contrario che da noi!) la fretta è considerata un gesto di grande disonore e maleducazione. Una persona sposata, un padre di famiglia, non corre mai. Se una persona corre, significa che perde la propria reputazione (Pr 19,2: “Chi cammina in fretta sbaglia strada”). Per restituire l’onore al figlio il padre cade nel proprio dis-onore.

Ma gli corre incontro per cosa? Noi qui non lo sappiamo ancora. Gli darà “quattro bastonate”? Lo strozzerà? In fin dei conti tutti si aspettano questo!

E, invece, che cosa troverà il figlio minore? Non un padre che lo condanna (e ne avrebbe avuto tutte le ragioni!) ma un padre che lo perdona.

Qui il padre non chiede al figlio: “Cos’hai fatto? Ma come ti sei comportato? Ti sei pentito? Quante volte? Da solo o in compagnia?”. Lo bacia e basta: “Ti perdono, già sei tutto perdonato”, senza sapere perché è tornato.

Dio è così: ci perdona sempre. Nei vangeli mai Gesù invita i peccatori a chiedere perdono a Dio – non si trova neanche una sola volta – ma sempre, continuamente, invita gli uomini a perdonarsi fra di loro per rendere operativo questo perdono da parte di Dio.

GLI SI GETTO’ AL COLLO=se noi non sapessimo come continua la parabola avremmo potuto pensare: “Gli si gettò al collo… e lo strozzò”.

 

Lc riprende alla lettera un’espressione che si trova nel primo grande perdono che compare nella Bibbia. Dove si trova? Nella Genesi. Naturalmente anche là si parlava di eredità.

Giacobbe, vigliaccamente, approfittando che il padre Isacco è ormai cieco e non vede – Giacobbe era il secondogenito e sapeva che l’eredità passava tutta al primogenito Esaù – inganna il padre. Isacco era vecchio e stava per morire, voleva perciò benedire il suo figlio primogenito Esaù, ma Giacobbe, avvertito dalla madre Rebecca che aveva sentito ciò che Isacco aveva detto ad Esaù (Gen 27,4: “Preparami un piatto di mio gusto e portami da mangiare perché io ti benedica prima di morire”), andò per primo e gli portò il piatto (cucinato dalla madre!).

Solo che Esaù era peloso e Giacobbe no. Quindi Giacobbe, sempre su idea della madre, si vestì con delle pelli in modo da sembrare peloso. Isacco mangiò il piatto preparato da Giacobbe credendo che fosse Esaù. Sentì la voce di Giacobbe, ma quando lo toccò si convinse che fosse Esaù; gli chiese: “Tu sei proprio il mio figlio Esaù?”. Rispose: “Lo sono”! (Gen 27,24).

Quando arrivò Esaù con il suo piatto, Isacco si rese conto dell’inganno di Giacobbe ma la benedizione non poteva più essere ritirata.

Allora Esaù volle vendicarsi; sua madre Rebecca, sentiti i suoi propositi, avvertì Giacobbe: “Tuo fratello appena ti vede ti fa la pelle. Scappa e fuggi via”. E così Giacobbe scappò da Labano, fratello di Rebecca.

Ma un giorno Esaù con 400 uomini si trova davanti a Giacobbe e Giacobbe pensa: “E’ la fine!”. Ma, invece, incredibilmente cosa accadde?

Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero” (Gen 33,4).

Qui succede la stessa cosa! Vengono ripetuti gli stessi gesti di Esaù con Giacobbe: il padre perdona il figlio minore.

Il perdono viene prima e al di là del pentimento.

 

LO BACIO’=toccando il figlio che è stato con i porci, l’impurità del porcaio passa pure al padre. Così come prima ha perso l’onore per rendere onore al figlio, adesso accetta di essere impuro per rendere puro il proprio figlio.

Il padre prima ha perso la sua reputazione correndo incontro al figlio e adesso incontra l’impurità abbracciandolo e baciandolo.

 

21 Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.

PADRE HO PECCATO VERSO IL CIELO E DAVANTI A TE; NON SONO PIU’ DEGNO DI ESSERE CHIAMATO TUO FIGLIO=è la frase che si è preparato per essere accolto almeno tra i servi di suo padre. E’ quindi uno stratagemma per ottenere qualcosa da suo padre. Non c’è pentimento ma solo tanta fame.

Osserviamo: il figlio ragiona con le categorie del merito, di esser degno o no. Il figlio crede che il perdono venga meritato.

Ma il padre non gli permette di continuare e lo stoppa. Il padre non gli lascia terminare l’atto di dolore che lui si era preparato e soprattutto non gli permette quell’espressione: “Trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,19).

 

22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.

PORTATE QUI IL VESTITO PIU’ BELLO=qui c’è di nuovo un riferimento al libro della Genesi.

 

Nella Genesi si racconta che Giuseppe, divenuto schiavo, era finito in casa di Pontifar, un consigliere del Faraone e comandante delle guardie. A Giuseppe tutto riusciva bene e divenne il prediletto del suo padrone. Ma non solo del suo padrone: anche della moglie del suo padrone, che ogni giorno gli diceva: “Unisciti a me” (Gen 39,7.12). Giuseppe, però, rimaneva fedele.

Un giorno lei ci provò, ma lui la rifiutò e scappando via, lasciò lì il suo mantello. Fu il pretesto per dire che, non lei, ma Giuseppe ci aveva provato con lei (Gen 39,1-20). Al sentire questo il padrone lo fece imprigionare.

Ma a Giuseppe riusciva bene tutto (perché il Signore era con lui) e riusciva pure ad interpretare i sogni del Faraone (Gen 40-41). Per cui un giorno “il faraone si tolse l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro” (Gen 41,42). Giuseppe fu promosso da schiavo a seconda carica in Egitto dopo il Faraone.

Quindi il cambio di vestiti non è perché sono sporchi ma è il segno della dignità riacquisita.

Il padre gli ridà la dignità precedente senza nessuna garanzia, senza chiedere nessun pentimento.

 

METTETEGLI L’ANELLO AL DITO=l’anello non è un semplice monile ma la consegna del sigillo della famiglia. Possedere l’anello significava essere a capo di tutta l’amministrazione.

Anche qui l’evangelista si rifà a delle espressioni dell’Antico Testamento: “Il re si tolse l’anello che aveva fatto ritirare ad Aman, e lo diede a Mardocheo. Ester affidò a Mardocheo l’amministrazione della casa che era stata tolta ad Aman” (Est 8,2).

L’anello è la carta di credito di oggi, il libretto degli assegni della casa. Ebbene a questo figlio incapace, che in breve tempo ha dissipato tutto il suo patrimonio, il padre gli ridà la dignità di prima e addirittura l’anello, cioè lo mette a capo dell’amministrazione della casa.

Ma siamo matti? Sappiamo se il figlio ripete quello che già ha fatto? E se scappa? E se dissipa tutto un’altra volta? E se spende tutti gli averi del padre di nuovo? Non è rischioso? Certo, tutto è possibile! Ma questi sono i rischi dell’amore.

 

E I SANDALI AI PIEDI=togliere i sandali ai piedi era una delle espressioni che accompagnavano le manifestazioni di dolore, di lutto. Rimetterli significava la fine del periodo di tristezza. Per il padre, la mancanza del figlio, era stata vissuta come un lutto, adesso il lutto è finito e bisogna restituire la gioia a questa casa.

Inoltre, per la Legge del Levirato, un uomo senza sandali era un uomo senza discendenza (Nm 36,7; Dt 25,9). Non solo il figlio pianto come morto è tornato in vita, ma è stato reintegrato nella famiglia a pieno titolo. Adesso è chiamato pure a reintegrare la sua discendenza.

 

23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,

PRENDETE IL VITELLO GRASSO=in tempi dove la carne si mangiava raramente e solo nelle grandi occasioni, l’uccisione del vitello grasso era un avvenimento eccezionale (Gen 18,7) riservato per onorare il Signore (2 Sam 6,13).

 

24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

PERCHE’ QUESTO MIO FIGLIO ERA MORTO ED è TORNATO IN VITA=questo è il motivo della festa: era un uomo morto ed è tornato a vivere. Quindi Dio è lì ad aspettarci, non per farci sentire in colpa per il nostro peccato, ma per ridonarci la vita.

L’incontro dell’uomo peccatore con Dio, non è mai quello sempre avvilente dell’elenco delle proprie infedeltà o delle proprie colpe, ma quello sempre arricchente ed esaltante della grandezza dell’amore di Dio. Dio non vuole che noi andiamo da lui in ginocchio supplicando di ottenere il perdono. Dice: “Guarda, il perdono te l’ho già dato; adesso facciamo festa”, perché la festa è il segno della vita. La confessione dovrebbe essere una festa di vita!

E COMINCIARONO A FAR FESTA=tre volte era stata nominata la morte e tre volte adesso viene nominata la festa (Lc 15,23.24.32).

 

25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;

IL FIGLIO MAGGIORE=maggiore=presbyteros. Perché Lc adopera questa parola? Chi erano i presbiteri? Erano gli anziani del popolo che insieme agli scribi e ai sadducei formavano il sinedrio. Infatti per chi ha detto la parabola? Proprio per loro che “mormoravano” (Lc 15,2). Il fratello maggiore sono proprio loro, le persone religiose e tutti coloro che pensano di ottenere l’amore di Dio grazie ai loro sforzi e ai loro impegni.

QUANDO FU VICINO A CASA, UDÌ LA MUSICA E LE DANZE=la reazione normale di una persona sana è quella di dire: “Uau! Che bello! Che sorpresa! Cosa c’è di bello da festeggiare!”. Uno sano corre a vedere cosa c’è da festeggiare! Uno sano non vede l’ora di far parte della festa!

Ma quest’uomo del dovere è malato dentro, è deformato nella psiche: come sente la musica sospetta già. Perché per lui la vita è triste, funerea, cupa, tutta “doveri e obblighi”.

 

26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.

E NON VOLEVA ENTRARE= abbiamo due figli fuori di casa. Prima il minore se ne era andato via; adesso è il maggiore che è fuori di casa. A volte le persone religiose che si credono “a posto”, che sono sempre in chiesa, sono fuori dalla Casa di Dio.

SUO PADRE ALLORA USCÌ A SUPPLICARLO=il padre è lo stesso con entrambi i figli. Era uscito col minore prima, esce col maggiore adesso. Il padre non fa differenze. Il padre verso il figlio non si comporta come un padrone ma addirittura come un servo che supplica.

 

29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.

EGLI SI RIVOLSE AL PADRE=il figlio minore per tre volte lo aveva chiamato “padre” (Lc 15,11.18.21) ma il maggiore mai lo chiamerà così!

ECCO IO TI SERVO DA TANTI ANNI E NON HO MAI DISOBBEDITO=io ti servo=douleo-servire, indica il lavoro degli schiavi mentre per il lavoro volontario, reso per amore, si usa diakoneo.

Questo è il ritratto di un certo modo di credere: servire Dio perché poi Lui ti ricompensa. È la tragedia di molti credenti che vivono il rapporto con Dio sempre con timore come dei servi nei confronti di un Signore e non riescono mai a vivere come dei figli col loro padre. Hanno sempre il timore di trasgredire, di fare male, perché poi Dio si vendica.

Nel sentirsi servo del padre il maggiore è uguale al minore: entrambi non riescono a vedere il papà come un padre ma piuttosto come un comandante da servire e da onorare.

E TU NON MI HAI MAI DATO UN CAPRETTO PER FAR FESTA CON I MIEI AMICI=ma sei scemo! Ma se tutto è tuo! Ma prenditelo e fai festa!

 

Osserviamo: la religione (=questo modo di credere) mantiene le persone bambine, infantili, immature, incapaci di autonomia e sempre bisognose dell’approvazione e del consenso degli altri. “Perché mi chiedi un capretto se tutto è tuo?”.

Il maggiore rappresenta tutte quelle persone che continuamente chiedono a tutti: “Ma come ci dobbiamo comportare? Ma è giusto fare così? Tu cosa dici? La Chiesa cosa dice?”. Hanno paura di sbagliare, hanno paura di essere rifiutati o puniti da Dio e quindi chiedono sempre consiglio a qualcuno e non fanno niente se non hanno il placet e l’approvazione degli altri.

Gesù non vuole che rimaniamo bambini e che, per sapere se abbiamo fatto bene, andiamo sempre da un padre, da un santo padre, e chiedergli: “Ho fatto bene?”. Gesù vuole che ragioniamo con la nostra testa e che le cose le facciamo spinti dalla forza del nostro cuore, cioè dall’amore.

Per questo Gesù pone sempre come condizione per seguirlo l’abbandono del padre: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o madre o padre o figli…” (Mc 10,29-30).

 

30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”.

QUESTO TUO FIGLIO=non dice “mio fratello”, ma “tuo figlio”. Qui il conflitto, il litigio, è aperto! Questa cosa la facciamo anche noi. Quando litighiamo col partner per l’educazione del figlio, a volte, diciamo: “Tuo figlio cara, hai visto cos’ha fatto adesso!”. Solo che quel figlio è anche nostro figlio.

HA DIVORATO LE TUE SOSTANZE=guardate la falsità: non è vero quello che gli dice, perché ciò che il minore ha divorato era “quello che gli spettava” (Lc 15,12).

CON LE PROSTITUTE=ma a lui chi gliel’ha detto? Non si era detto questa cosa prima! Sentite la diffamazione del maggiore che gode nel mettere in cattiva luce il minore. Lui che non ha mai trasgredito nulla, adesso si sente autorizzato a giudicare suo fratello. Questa è la malizia delle persone “troppo religiose” che vedono peccato dappertutto (soprattutto quelli sessuali). Ma forse, detta da uno che non ha mai trasgredito un solo comando, che non ha mai osato fare festa con i suoi amici e neanche di prendersi un solo capretto, questa espressione sembra più dettata dall’invidia che dalla rabbia!

Questa è la stessa accusa mossa a Gesù dai farisei e dagli scribi (Lc 15,2: “Accoglie i peccatori e mangia con loro”).

VITELLO GRASSO=è la terza volta che ritorna questa espressione (Lc 15,23.27.30).

 

31 Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;

FIGLIO=teknon (da tikto=partorire) “figliolo mio”; il termine greco è un termine che indica un grande affetto, una grande tenerezza.

TU SEI SEMPRE CON ME E TUTTO CIO’ CHE È MIO E’ TUO=cos’era che gli ha impedito di rendersi conto che tutto era già suo? L’obbedienza! Lui ubbidisce al padre, non sente il suo amore.

 

32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

TUO FRATELLO=il padre gli ricorda che “quello lì” è suo fratello. La parabola si chiude senza dirci se il fratello maggiore entrerà o no: è un finale aperto, da scrivere.

In ogni caso i farisei e gli scribi “non entreranno”: i farisei, infatti, “si beffavano di lui” (Lc 16,14) e gli scribi “cercavano di mettergli le mani addosso” (Lc 20,19). Quando si è troppo fedeli alla Legge si diventa freddi nel cuore e all’amore.

 

 

 

La lotta per l’amore del padre

In realtà la diversità dei due figli nel rapporto con il padre è solo sulla scelta della strategia.

Strategia del maggiore: il dovere, lo stare

Il maggiore si sottomette: il dovere. Rinuncia alla sua vita per “amore” del padre: “Tu mi rifiuti, ma io ti dimostrerò che ti sbagli”. E fa il bravo, il bravissimo figlio.

Una persona che “fa tutto quello che si deve”, brava, che non si ribella e non trasgredisce mai, è molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità) ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere con l’ubbidienza ciò che non si può avere (l’amore è gratuito).

La strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, così mi amerai”. Ti amo se vai bene a scuola: e il bambino si sottomette così da avere l’approvazione del genitore. Ti amo se non disturbi: e il bambino si sottomette e diventa un adulto per avere l’approvazione. Ti amo se fai così: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore.

Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come potrà sentirsi dentro? Come il maggiore: pieno di rabbia, ovvio. Dice: “Guarda cosa mi chiedi (la vita) per essere amato”.

 

Strategia del minore: andarsene, trasgredire

Il minore, invece, si ribella e se ne va. Non è accettato dal padre: “Mi rifiuti? Anch’io!”.

D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi un po’ di stima del padre: fare il figlio bravo e ubbidiente. Se in casa c’è già chi fa il bravo (via già percorsa da uno), all’altro rimane che fare il non bravo. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non spetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro per differenziarsi dovrà per forza farne un’altra!

 

La diversità dei figli

 

Biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, fuori casa (il primo è l’abile in casa): e infatti il minore se ne va in giro per il mondo.

A volte i genitori dicono: “Li abbiamo educati nella stessa maniera… e sono diversissimi!”. Ma ci sono varie diversità:

  1. La biologia. Biologicamente ogni figlio è equipaggiato per funzioni diverse: il primo è il responsabile della casa, più maschile. Il secondo è il comunicativo, quello più fuori casa, più femminile. Il terzo è il creativo/ribelle, quello che si distacca da casa. Il quarto è come il primo, il quinto come il secondo, ecc.
  2. Il posto determina situazioni diverse: se sei primo non hai nessuno davanti. Se sei secondo hai sempre qualcuno davanti.
  3. Il primo figlio non è il secondo. Il primo figlio ha un investimento diverso da parte dei genitori perché è il primo (l’aspettato o “la sorpresa”) o perché le condizioni di vita sono diverse.
  4. La diversità di ogni figlio. Ogni figlio è diverso per dispositivo di partenza (insieme di doti, capacità, ecc.), per momento in cui arriva nella famiglia, per stadio di evoluzione o involuzione dei genitori, per diversità della situazione familiare e sociale, ecc.

Nessun figlio viene amato come gli altri: l’amore per ogni figlio è unico perché è diverso, solo per lui. L’importante è che ciascuno sia amato!

 

Madri assenti

 

C’è un padre con due figli. E la madre? La madre non c’è, o se c’è è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri lavastoviglie, che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che – dicono loro – “sacrificano la loro vita per i figli”: in realtà non ci sono.

Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo fare tanto. Amare è valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, non essere ansiosi (se no si passa questo); amare è avere qualcosa da dare e non fare un figlio perché qualcuno ti ami (per prendere da lui).

Da un’indagine è emerso che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa (76%), più delle mamme tedesche (56%) o di quelle svedesi (40%). La mamma italiana soffre cioè di “figliolite”: crede, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di lei. Sorge il dubbio che sia lei ad aver bisogno di lui.

Una madre non è una persona a cui appoggiarsi, ma grazie alla quale si impara che non è necessario appoggiarsi.

 

Padri assenti

 

E il padre? Dov’era? Come non ha fatto a vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai il mio patrimonio”? Non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Che voleva un capretto? E quando il minore se ne va perché non lo interpella (visto che era parte in causa)?

Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è successo?”. “Per forza… eri cieco!”.

Guardate il padre: non dice nulla, neanche una parola. Succede di tutto in casa sua, ma lui zitto. E’ un genitore che non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. L’unica cosa che sa fare è dargli le sue cose, così al minore, così al maggiore. Ma quando un genitore da le proprie cose al figlio vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozione, vitalità, niente di sé da passargli. E’ il fallimento dell’educazione.

Molti genitori riempiono di giocattoli, di vacanze, di cose, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): bene ma questo non può sostituire la cosa più importante: l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore e di un rapporto con lui (parole, momenti, abbracci). Un figlio ha bisogno della madre, del suo amore e di un rapporto con lei (parole, carezze, sentimenti). E l’uno non sostituisce l’altro.

I genitori a volte dicono: “Hai tutto”; sì è vero, tutto di materiale, ma niente dell’anima.

Una giovane coppia entrò nel più bel negozio di giocattoli della città. L’uomo e la donna guardarono a lungo i colorati giocattoli allineati sugli scaffali, appesi al soffitto, in lieto disordine sul bancone. C’erano bambole che piangevano, ridevano e parlavano; giochi elettronici, cucine in miniatura che cucinavano torte e perfino pizze. Non riuscivano a prendere una decisione. Si avvicinò a loro una graziosa commessa. “Vede”, spiegò la donna, “noi abbiamo una bambina molto piccola, ma siamo fuori di casa tutto il giorno e spesso anche la sera”. “E’ una bambina che sorride poco”, continuò il marito, “vorremmo comprarle qualcosa che la renda felice anche quando noi non ci siamo, qualcosa che le dia gioia anche quando è sola”. “Mi dispiace”, sorrise gentilmente la commessa, “ma noi non vendiamo genitori”.

 

Se c’è la comunicazione tutto cambia

E’ la parabola del non detto, della non comunicazione, dove all’inizio nessuno parla. Osservate: per metà parabola nessuno dice niente, nessuno parla a qualcun altro.

Sembra tante delle nostre famiglie: “Tutto bene, nessun problema”. E, invece, ci sono un sacco di cose che non vengono dette, che rimangono dentro, che non sono espresse e che poi esplodono. Quando poi esplodono tutti cadono dalle nuvole: “Ma cosa gli è preso? Ma cos’ha?”.

Papà e mamma non si sopportano ma “per il bene dei figli” fanno finta di niente: il disinteresse passa lo stesso! C’è un problema in casa ma nessuno ne parla, tutti fanno finta di niente. La mamma ha fatto un esame e sembra abbia “un brutto male” o il papà forse verrà licenziato ma non se ne parla, come se niente fosse. L’angoscia viaggia, passa. Il figlio è triste ma “Sarà niente! Sarà la primavera! Sarà un periodo! Sarà l’età!”. Bisogna sistemare la casa, riordinare, pulire: non c’è tempo per parlare di sé e di ciò che si ha dentro. O forse si hanno tante cose da fare, così si ha la scusa per non affrontare certe questioni!

Si dice che Napoleone confinato nell’isola di Sant’Elena sia stato avvelenato con l’arsenico. Ogni giorno gli sarebbe stato somministrato un po’ di veleno. Così sarebbe lentamente morto… Il non detto, la non comunicazione, è un veleno che ti viene iniettato e ti uccide l’anima lentamente.

 

Quand’è che la parabola svolta, cambia? Quando i personaggi iniziano a parlarsi. Il minore parla a sé (15,17-20): “Quanti salariati…”. E cosa si dice? Di che cosa parla? Deve parlare del suo errore (rientrò Lc 15,17), del suo sbaglio, di ciò che ha capito, della sua fame d’amore. Il padre parla di sé: “Questo mio figlio è tornato e facciamo festa…”. Il maggiore? Il maggiore parla dell’altro: “Ma ora che questo tuo figlio… con le prostitute”. E, infatti, non entrerà!

Parliamo di noi, parliamo a noi, smettiamola di parlare degli altri. Facendo così, siamo solo giudicanti come il maggiore.

 

Guerre tra fratelli? Guerre per l’amore!

 

Osservate: i due fratelli non si incontrano mai! Cos’è in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre.

A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i 2/3 dell’eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva… il minore perdeva. Era così. Il maggiore si attacca ai beni: “Sono il preferito del padre: è tutto mio”. E quando il fratello se n’è andato, non gli sarà sembrato vero. Anche l’ultimo rivale se n’è andato: tutto mio, adesso! Ma l’attaccamento ai soldi è l’attaccamento al padre: per questo non è mai cresciuto come persona, per questo non ha mai fatto nulla. E’ ancora attaccato, dipendente dal padre e dal suo riconoscimento.

Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per fame!, solo per non morire di fame.

 

Le guerre per l’eredità o le lotte al lavoro sono conflitti d’amore (nascosti) per essere i primi amati. Il sogno di ogni figlio è di essere unico, di avere tutto l’amore del padre, della madre. Ma è pericoloso: perché da grande penserà che tutto il mondo, gli altri, girino solo attorno a lui e in funzione sua. E’ importante avere fratelli, anche se questo comporta gelosia, rabbia, odio: perché dobbiamo imparare a spartire la torta dell’amore. Non ci siamo solo noi a questo mondo.

Quando mia madre portò a casa mio fratello io dissi: “Se non lo fai tu lo butto fuori dalla finestra io!”. Altri bambini si divertono a istigare il fratello (lo svegliano finché dorme, ecc).

Ad un bambino di 6 anni, arrivata la sorellina, ha fatto le valigie. “Cosa fai?”, chiede la mamma. “Non c’è spazio per due in questa casa!”.

Una bambina ha scritto questa poesia: “La mamma dice che io sono il suo zuccherino. La mamma dice che io sono il suo orsacchiotto. La mamma dice che io sono perfetta. La mamma dice che sono meravigliosa. Ma perché la mamma allora ha avuto un altro bambino?”.

Un altro bambino: “Mamma è vero che Gesù può tutto?”. “Sì tesoro mio”. “Allora, mamma, preghiamolo perché Gesù si riprenda mia sorella!”.

 

Pensiero della settimana

Se ami la vita, la vita ricambia il tuo amore.