Esigenze del cuore

XXIV DOMENICA DEL TEMPO Ordinario

Prima lettura: Sir 27, 30-28,7  Salmo: Sal 102  Seconda lettura: Rm 14, 7-9  Vangelo: Mt 18, 21-35

 

 

Prendiamo la Bibbia e l’A.T.: cosa si dice sul perdono? Si dice che l’uomo è un verme (Gb 25,4-6) peccatore, che deve chiedere sempre perdono al Signore (Sal 79,8-9) e offrire sacrifici a Dio per i suoi peccati (Lv 4-5). Quindi se commetti qualcosa che non va, diceva la Bibbia, fai dei sacrifici, offri qualcosa, fai una penitenza, per tenere buona l’ira di Dio.

Ancor oggi le persone si chiedono: “Ma Dio, potrà perdonarmi?”. Come se Dio non fosse così grande e non avesse un cuore così grande da perdonarti! Il perdono di Dio è gratuito: non si merita e non si conquista. E’ un dono. Se invece io voglio conquistarmi (con le preghiere, con le opere, con le buone azioni, ecc) il perdono di Dio, allora io sono Dio. Ma se io sono Dio, allora Dio non esiste più!

C’era una donna che diceva di vedere in visione Dio. Il vescovo della sua città era molto scettico. Allora disse alla donna: “Senta, la prossima volta che le appare, chieda a Dio quali sono i peccati del suo vescovo. Se è davvero Dio, glieli rivelerà”. Un mese dopo la donna ritornò. “Le è apparso Dio?”. “Sì”. “Gli ha chiesto ciò che gli ho ordinato?”. “Sì”. “E cosa le ha detto Dio?”. “Mi ha detto: “Dì al tuo vescovo che i suoi peccati me li sono dimenticati”.”. Era proprio Dio!

 

A volte noi pensiamo che il vangelo dica delle cose, ma poi se si va a leggere con i propri occhi, se ne vedono delle altre. Infatti, se lo si legge bene, si osserva una cosa che non si direbbe: Gesù non invita mai gli uomini a chiedere perdono a Dio, né a fare penitenze (eccetto un caso). Il perdono di Dio è sempre certo e sicuro: non lo chiede all’adultera; non lo chiede alla peccatrice; non lo chiede neppure a Zaccheo. Gesù chiede sempre invece, ottenuto il perdono di Dio, di perdonare i propri fratelli. Perché chi ha ricevuto perdono, perdona – non confessioni ma perdono che è diverso. Gesù lo aveva detto, e lo diciamo anche noi, nel Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).

Ricevere perdono infatti è fare l’esperienza di essere amati, di essere accolti, di essere un valore positivo, di avere dignità al di là di ciò che si è fatto, pensato, detto. Ricevere perdono è percepire che non perdiamo valore per Dio, davanti ai suoi occhi, qualunque cosa abbiamo fatto o sia successa.

Ma per ricevere perdono bisogna aprirsi: cioè bisogna lasciare che l’amore di Dio ci entri dentro. Bisogna cioè avere l’umiltà di ricevere e di accettare che Dio ci ami nonostante tutto. Quando un uomo fa questo non è più lo stesso: pensate a Zaccheo, alla peccatrice, alla prostituta. Dio non ha chiesto a loro di chiedere scusa, ma di lasciarsi amare da Lui. Bisogna però aprirsi, perché altrimenti non percepiamo niente. Altrimenti è come ricevere una telefonata ma non “tiri su” la cornetta: non senti niente!

Questo ci dovrebbe far molto riflettere: abbiamo troppo insistito sulla confessione sacramentale che è diventata un atto esteriore, senza cuore (Mt 18,35) e senza conseguenze nel rapporto con le persone. Le persone vengono, si confessano e così “si sentono a posto”. Ma poi nulla cambia nella loro vita. Hanno ricevuto tante assoluzioni ma hanno perdonato poco.

 

Domenica scorsa abbiamo visto che Gesù afferma l’importanza del confronto con il fratello che ha peccato, che ha commesso una colpa, e la necessità di ricomporre il dissidio all’interno della comunità. Quindi: “C’è un problema fra te e un’altra persona? Fai di tutto per capirvi, per comprendervi, per ricomporre l’unità e l’amore. E non aspettare lui ma parti tu!”. Se il fratello si rifiutasse di ricomporre questa unità, Gesù indicava di amarlo come un “pubblicano o un peccatore”, cioè un amore in perdita, come l’amore al nemico: “Io ti amo e continuerò ad amarti (=volere il tuo vero bene) anche se tu non lo vuoi” (amore unidirezionale).

Ma cosa ne pensano gli apostoli di tutto questo? Non sono per niente d’accordo con Gesù e Pietro si fa subito sentire.

 

18,21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».

FINO A SETTE=la legislazione rabbinica concedeva un massimo di tre volte per il perdono. Pietro, quindi, già esagera; crede di avere già un cuore grande, quasi eccessivo. Pensa Pietro: “Se è da bravi perdonare tre volte, è da superbravi perdonare sette volte!”. Non ha ancora capito niente! Pietro vuole sapere delle regole precise, vuole sapere dov’è il limite nel perdonare.

 

22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

SETTANTA VOLTE SETTE=cos’è questa espressione? Non indica solo la quantità del perdono (illimitato) ma la sua qualità (incondizionato).

SETTE=il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico, infatti il sette rappresenta il tutto, poiché il sette è il numero della creazione. Quindi sette=sempre e settanta volte sette=sempre e in ogni caso.

Gesù si rifà a due fatti della Genesi. Cos’era successo?

  1. Caino aveva ucciso il fratello Abele: si aspettava quindi, la vendetta di qualcuno. Dobbiamo ricordarci della legge del tempo: “Occhio per occhio, dente per dente, vita per vita”. Ma Dio disse: “Chiunque ucciderà Caino sarà vendicato sette volte (Gen 4,15)”. Questo per dire: “Caino ha ucciso ma nessuno uccida Caino”.
  2. Nella Genesi (Gen 4,23-24) Lamech, un uomo pieno di odio e molto bellicoso, un discendente di Caino, che inaugura tra l’altro la poligamia (Ada e Zilla sono le sue due mogli), si vanta di aver ucciso un uomo per un niente e un ragazzino per un livido (“Lamech disse alle mogli: “Ada e Zilla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette (=senza fine)!”) e inaugura la vendetta. Anche lui, quindi, avrebbe meritato la stessa sorte.

Ma la Genesi dice: “Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette” (Gen 4,24). Quindi, nonostante ciò che di scellerato ha fatto Lamech, nessuno si vendichi (anche se lo meriterebbe). In quell’occasione c’è il riferimento alla frase di oggi: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette!”. Ecco allora il duplice riferimento:

  1. Lamech parla di una vendetta di sette volte tanto su chi avesse ucciso Caino e Pietro parla di perdono per sette volte; Lamech parla di una vendetta di settantasette volte (=sempre) e Gesù di settanta volte sette (=sempre).
  2. Qui si parla di fratelli (“Quante volte dovrò perdonare al mio fratello” Mt 18,19) ma anche Caino era fratello di Abele.

Cosa vogliono dire questi riferimenti? Che la mancanza di perdono, come per Caino e Abele, porta alla morte i componenti della comunità.

 

Gesù risponde a Pietro? No. Gesù sposta la questione dalla quantità (quante volte?) alla qualità (da dove nasce il tuo perdono?). La domanda che Gesù fa è: per quali ragioni perdoni?  Da dove nasce il perdono? Dal cuore. Se non nasce dal cuore non si chiama perdono. Ciò che facciamo nasce da ciò che sentiamo. Le nostre azioni sono determinate da ciò che proviamo. Sono i nostri sentimenti, le nostre emozioni che ci spingono a fare ciò che facciamo. E’ ciò che abbiamo dentro che ci fa fare ciò che facciamo fuori.

Guardate cosa succede. Tutte le azioni e i cambiamenti del racconto sono preceduti dai verbi che esprimono un sentimento forte e intenso: è la forte emozione che poi porta ad agire.

  1. Il servo chiede al re di avere un cuore grande (makrotimeo). Ciò che fa (gettarsi a chiedere, supplicare e chiedere misericordia) è dettato dalla paura di ciò che può succedergli e da qui avviene la richiesta di perdono e di misericordia. E’ la paura della fine che gli fa chiedere questo.
  2. Il re si impietosì, ebbe compassione (planchnizomai). Il re/padrone è toccato nell’animo e perdona e libera il debitore proprio in ragione di questo sentimento. Lo stesso re proverà sdegno/rabbia e sarà questo sentimento che lo farà agire gettandolo in mano agli aguzzini.
  3. Il debitore perdonato, però, non prova niente: non è toccato da ciò che gli è successo. Non sente. E’ insensibile rispetto al dono che gli è stato fatto. E guardate cosa fa uno insensibile. Un uomo che non prova più niente (come il servo perdonato) è capace di tutto.
  4. Il re è sdegnato (orghizo), che indica un forte sentimento di rabbia, e questo lo fa agire mettendolo in mano agli aguzzini.

 

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.

RE=qui il padrone è un re (basileia). Vedremo che la stessa persona, questo re, può rapportarsi in molti modi (re, padrone, signore). Tu puoi essere un re (basileia Mt 18,23): voler giustizia. Tu puoi essere un padrone (kyrios/padrone Mt 18,25): voler vendetta. Tu puoi esser un signore (kyrios/signore Mt 18,27): voler perdono.

REGOLARE I CONTI=osserviamo che è il re che prende l’iniziativa di condonare, cancellare i conti.

SERVI=col termine “servo” in oriente viene definito qualunque dipendente del re. Quindi qui si tratta non dei nostri servi ma in realtà di alti funzionari, di un satrapo (un alto funzionario chiamato a governare una parte del territorio del re e incaricato di riscuotere le tasse (Esd 4,7.9)) e lo si vede dalle somme spropositate che gestiscono e che gli devono.

 

24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti.

DIECIMILA TALENTI=è una cifra spropositata, assurda. Infatti, un talento equivaleva tra i 26 e i 36 Kg di oro, quindi diecimila talenti sono circa 300.000 Kg di oro. Dobbiamo pensare che le entrate di Erode il Grande erano circa 900 talenti annuali (quindi le entrate annuali dello stato di Israele a quel tempo).E’ una cifra incalcolabile, impossibile da restituire.

 

25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito.

PADRONE=kyrios=padrone o signore, qui indica il padrone che decide e detiene il potere su di te.

VENDUTO LUI CON LA MOGLIE, I FIGLI E QUANTO…=guardate che qui non c’è nessuna cattiveria ma solo giustizia. Era il diritto del tempo, la giustizia di allora: “Se non puoi pagare sarai venduto come schiavo e il ricavato salderà il tuo debito”. Quindi, qui non c’è un re cattivo ma semplicemente giusto. Si prende quello che gli è dovuto. E’ la prassi normale. “Non hai da pagarmi?”. “Allora tu e tutta la tua famiglia diventerete miei schiavi”.

Vedete: essere giusti, spesso, non vuol dire amare! Spesso con “la giustizia” noi nascondiamo la mancanza di amore.

L’ordine del padrone era conforme alla cultura dell’epoca come si legge nel Secondo Libro dei Re: “Una donna, moglie di uno dei profeti, gridò a Eliseo: Mio marito, tuo servo, è morto; tu sai che il tuo servo temeva il Signore. Ora è venuto il suo creditore per prendersi come schiavi i due miei figli” (2 Re 4,1). L’arresto per debiti non era previsto dall’ordine giuridico ebraico, ma era diffuso in Oriente e possiamo ipotizzare anche in Palestina. Era diffusa anche la tortura dei proprietari su schiavi e schiave, che non veniva considerata un abuso in tali situazioni, ma qualcosa di “giusto”.

 

26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.

ALLORA IL SERVO PROSTRATO A TERRA=proskyneo=rendere omaggio, magari inginocchiandosi, era solitamente compiuta davanti ai sovrani e alle divinità.

ABBI PAZIENZA=makrotimeo=avere un cuore grande. L’uomo fa appello al cuore e alla mente del re: “So che non lo meriterei, so che non ne ho i meriti ma guarda che fine faccio!”.

CON ME E TI RESTITUIRÒ’ OGNI COSA=ma cosa dice? Dice una stupidaggine! Lo sa anche lui che non è possibile! Lo sa anche lui che la somma che deve al re è impossibile da restituire: per restituirla ci sarebbero voluti più di 164.384 anni di lavoro per accumulare una cifra del genere. La supplica del funzionario è dettata dalla disperazione ed è irreale. Essendo il debito spropositato gli sarebbe mancato il tempo necessario per restituirlo.

Quindi il re gli restituisce la vita che aveva (giustamente) perso. Il re gli ridona il diritto di vivere. Non ce l’aveva, ma il re glielo regala.

 

27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

PADRONE=kyrios=signore (e non padrone, visto quello che fa).

EBBE COMPASSIONE=splanchnizomai, vuol dire “essere toccati dentro”. Letteralmente è: “avere viscere di madre”; è l’amore viscerale, quello “di pancia”, quello che senti dentro, che ti fa male, che ti fa commuovere e ti fa sgorgare un amore profondo. Vedi qualcosa e non puoi far finta di niente, perché se toccato nel tuo interno.

E’ il verbo che l’A.T. usa solo per Dio e il N.T. solo per Gesù (quindi Gesù è Dio!) e indica un’azione di misericordia viscerale da parte di Dio per i suoi figli e di Gesù per i suoi fratelli (Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34). Quindi si capisce subito chi è quel re: è Dio, è Gesù! La compassione non è mai un sentimento ma un’azione che mira ad alleviare la causa della sofferenza: condonò il debito.

 

E’ il verbo del buon samaritano: quando vede l’uomo mezzo morto, come fa a tirare via dritto? Qual è la regola che lo fa fermare? Era pericoloso fermarsi, quello che era successo all’altro poteva succedere anche a lui. Nessuna regola: solo la regola del suo cuore, dell’amore. Come poteva far finta di niente? Deve fermarsi, è un’esigenza del cuore (Lc 10,33).

E’ il verbo del padre misericordioso (Lc 15,20) quando vede il figliol prodigo tornare. Allora in un attimo si dimentica di quel che gli ha fatto, del rifiuto subito, dei beni sperperati, della figura che gli ha fatto fare davanti alla gente (è andato con le prostitute) e gli si butta con le braccia al collo. In un attimo tutto è dimenticato e tutto è passato: ciò che conta è il figlio.

E’ il verbo di Gesù (Lc 7,13) che si commuove di fronte al figlio unico della vedova di Nain. A questa donna, senza marito, viene sottratto l’unica cosa che ha: il figlio. Se hai un cuore, come puoi non commuoverti di fronte a certi dolori?

Il re è profondamente toccato (sentimento): “In nome della legge io sono a posto”. Ma in nome del mio cuore come faccio a ridurlo così? Lo rovino! Non posso!”. E così lo libera.

 

PERDONO’=meglio condonare; afiemi è perdonare, mandare via, liberare, con-donare. Mentre il per-dono riguarda la trasgressione di una norma ed è ciò che l’uomo ottiene da Dio dopo aver fatto digiuni, penitenze, sacrifici, offerte (ottengo il perdono attraverso ciò che faccio; per-dono), quindi richiede una riparazione e del tempo, degli atti verso Dio o i suoi intermediari perché questo avvenga, il con-dono, invece, è un’azione che viene gratis, senza dover far nulla, im-mediata (cioè non mediata da niente e da nessuno!) e che proprio per questo va con-divisa.

IL DEBITO=daneion non è il peccato ma il debito in denaro.

E’ importante che Gesù utilizzi la parola debito e non peccato. Infatti Gesù si richiama al Deuteronomio (Dt 15,2) dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla “legge del settimo anno”.

Cosa diceva il Deuteronomio? Diceva: “Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4). Israele, cioè, si sarebbe distinta tra le altre nazioni circostanti per il fatto straordinario che in questa nazione non vi sarebbe stato nessun bisognoso. Ciò era motivato dal fatto che Israele, a differenza dei popoli vicini, era governata dal vero unico Dio, padre per tutti. Quindi, per garantire ciò, cioè che nessuno fosse povero, bisognoso, si era istituito l’anno sabbatico (Dt 15,1-11; Es 23,10-11; Lv 25,3-7), dove tutti i debiti contratti venivano cancellati, e quindi nessuno più era povero. E il 50° anno veniva stabilito il giubileo, anno in cui ogni proprietà deve ritornare al suo proprietario originario (Lv 25,8-17).

Questo era il con-dono: tutto cancellato! Il con-dono dell’A.T. e di Gesù (che è diverso dal perdono) è la cancellazione immediata, immeritata e gratuita di ogni debito nei suoi confronti. Per questo non c’è mai da chiedere perdono a Dio. L’amore di Dio non si merita, per questo non si perde (Lutero).

Ma queste leggi non vennero mai applicate. Il Giubileo non c’è mai stato, in realtà. Cos’avevano fatto per aggirare la legge gli ebrei? Avevano creato la pratica del Prosbul, un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono.

Sarà Gesù a portare l’anno di grazia (Lc 4,18-19; Is 61,1-2) dove ognuno potrà sperimentare l’amore, il condono cioè di ogni debito, immediatamente e sempre.

 

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”.

APPENA USCITO=ma avrebbe dovuto fare festa, avrebbe dovuto ringraziare, avrebbe dovuto saltare dalla gioia!

CENTO DENARI=è una cifra irrisoria. Il denaro era la paga giornaliera di un operaio, per cui cento denari sono circa tre mesi di lavoro; una cifra che è possibile restituire. Notate la differenza: verso il re è debitore per 164.000 giornate di lavoro e verso il compagno di tre mesi di lavoro.

LO PRESE PER IL COLLO=che fa? Non è cattivo, solo che anziché usare la misericordia (il comportamento di Dio) usa la giustizia (il comportamento degli uomini).

Il sentire il dono ricevuto, la gioia di aver ricevuto condonato un debito che in nessun modo avrebbe potuto restituire, non si traduce in generosità nei confronti di chi gli è debitore. Non prova nessun sentimento. Non sente cosa gli è stato fatto. Non c’è nessun verbo che dica il suo stato d’animo, la sua felicità, la consapevolezza del dono ricevuto.

E cosa succede? Succede che quell’uomo incontra uno che gli è debitore di 100 denari: una sciocchezza! Se lui al re doveva l’equivalente di 40 milioni di euro, verso quell’uomo è creditore di 66 euro. Avrebbe dovuto mettersi a ridere; avrebbe dovuto dirgli: “Lascia stare, non pensarci neppure”. Ma chi non prova sentimenti è capace di tutto; chi non prova sentimenti può diventare cinico, spietato e dire: “Quel che è giusto è giusto!”, e nascondersi dietro le regole che lo permettono. E condanna il suo creditore. Perché se non hai un cuore non puoi percepire la sofferenza dell’altro.

 

29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”.

IL SUO COMPAGNO=sin-doulos=compagno di schiavitù. Mt usa questo termine per dire che i due appartengono alla stessa classe di debitori e quindi dovrebbero essere solidali.

PROSTRATO A TERRA LO PREGAVA=si comporta esattamente come l’altro debitore: si getta in terra, supplica e chiede di avere pazienza, assicura di rifondere il debito (questa volta possibile essendo modesta l’entità della cifra). E soprattutto c’è una differenza: lui sì che puoi rifondergli il debito, quindi quello che lui dice è vero!

 

30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

MA EGLI NON VOLLE=alla compassione del re non corrisponde quella del creditore. Non è stato toccato nell’animo dall’amore del re e per questo si comporta così.

 

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto.

VISTO QUELLO CHE ACCADEVA…=vi ricordate cosa aveva detto qualche versetto prima Mt 18,15-20: “Se tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo… poi con due o tre persone… poi dillo all’assemblea”. Beh qui i compagni non fanno questo ma vanno direttamente dall’autorità (re). E cosa succede? Succede che il finale è drammatico! E’ questo che succede quando ci si appella all’autorità, alla giustizia, alla legge superiore e non vi è la legge dell’amore (uno… due/tre… più persone=usa l’amore)? Sembrerebbe proprio di sì!

 

32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato.

SERVO MALVAGIO=malvagio=poneros: è importante questo termine perché è lo stesso che si ritrova al termine del Padre Nostro quando Gesù invita a chiedere “liberaci dal maligno (poneros)”. Il maligno è colui che è incapace di perdonare. E chi non perdona semina morte.

 

33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.

AVER PIETA’=eleos è la misericordia, la pietà.

 

34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.

SDEGNATO=orghizo=forte emozione di rabbia. E’ questa rabbia che fa agire il padrone.

AGUZZINI=basanistais. Gli aguzzini erano chi, sulle galere, sorvegliava la manovra dei remi e assegnava punizioni corporali ai rematori. La desinenza basan-(istais) richiama alle pene eterne dell’inferno.

RESTITUISSE TUTTO IL DOVUTO=ma non sarà mai in grado di restituire agli aguzzini il dovuto, quindi è per sempre.

 

35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

COSI’ ANCHE IL PADRE MIO CELESTE FARÀ CON VOI SE NON=il finale non è la punizione del padrone o di Dio, ma è ciò che succede a tutti coloro che si staccano dalle proprie emozioni: vivono nell’inferno, nella prigione, da schiavi.

Patrick Henry, protagonista della rivoluzione americana, che denunciò la corruzione dei funzionari pubblici e rivendicò i diritti degli abitanti delle colonie, quando fu catturato dagli inglesi e fu messo di fronte alla scelta di rinunciare alla rivoluzione e di unirsi agli inglesi o di essere fucilato come traditore, disse: “Datemi la libertà o datemi la morte”. Dove trovò questa forza? Nella forza del sentimento che aveva dentro.

Francesco d’Assisi o Madre Teresa dove trovarono la forza per fare ciò che fecero. Possiamo rispondere: “In Dio”, ma anche: “Nel sentimento del proprio cuore”: fu la vibrazione dell’essere che vive, che spinse Francesco ad onorare ogni creatura. Ogni creatura aveva eco e risonanza in lui, per questo tutto doveva esser rispettato ed era sacro. Fu la compassione, la tenerezza, che spinse Madre Teresa a prendersi cura di quelli a cui nessuno voleva dare cura. Poté fare ciò che fece per la forza del sentimento che viveva dentro di lei.

 

DI CUORE=è l’organo che ha bisogno di sentire l’amore. Questa è la nuova mentalità dove non prevale più la giustizia ma la misericordia.

Cosa aveva detto poco prima Gesù in Mt 18,18 sul legare e sciogliere? Che quello che legheremo rimarrà legato e ciò che scioglieremo sarà sciolto.

Dio ci ha già perdonato ma questo perdono diventa operativo ed efficace soltanto quando si trasforma in perdono nei confronti degli altri.

Cioè tu puoi legare le persone se non perdoni e “non liberi” (ecco il tenere legato) il perdono: quando fai così, fai morire le persone. Tu puoi slegare il perdono di Dio quando, ricevuto anche tu da Lui, “lo liberi”, cioè perdoni e lasci che l’amore di Dio, attraverso di te, giunga alle persone. Ciascuno di noi, quindi, è il mezzo dell’amore e del perdono di Dio. Dio perdona sempre ma noi abbiamo il potere di darlo o no, di legare e di sciogliere, di far vivere o di far morire. Il perdono di Dio, quindi, si vede se lo hai ricevuto, cioè “sentito, percepito”, solamente quando sei in grado di donarlo gratuitamente ai fratelli. Allora conosci il perdono di Dio e sai quanto sia meraviglioso, quindi lo puoi donare anche agli altri.

 

Cosa dice a me ancora questo vangelo?

 

  1. Che il tuo cuore rimanga vivo.

Scuola elementare: c’è un ragazzo “difficile” e alcuni genitori vogliono eliminare la “mela marcia”. Possiamo star zitti? Dire: “Io non vedo! Non sono cose che mi riguardano! Io non c’entro”? Guarda gli occhi sofferenti di quel ragazzo di otto anni: lo puoi fare solo se non hai un cuore!

Non abbiate paura di sentire la gioia, l’amore, la tristezza, la delusione, la paura, il pianto. Sentire un’emozione ci destabilizza ma è questo che ci fa sentire vivi. L’emozione è la vita che scorre in noi.

C’è un esperimento famoso che è stato fatto. Una pentola d’acqua bollente: butti dentro una rana e come tocca l’acqua, la rana salta ed esce fuori. Ma se tu prendi una pentola d’acqua fredda, ci metti la rana e poi la scaldi piano piano fino a che l’acqua bolle, la rana non esce: si abitua (e muore). Così ci abituiamo a non avere più emozioni; così ci abituiamo a certi modi di vivere che ci fanno morire; così ci facciamo andare bene e sopportiamo ciò che non può essere sopportato.

Perché se hai un cuore, come fai a non farti toccare dagli occhi del cane che abbandoni in autostrada? Se hai un cuore, come fai a non sdegnarti con chi picchia i bambini? Se hai un cuore, come fai a rimanere indifferente quando il tuo partner, vicino a te, soffre o è triste?

 

  1. Il debitore della parabola sono io.

Il re è Dio e io sono il suo servo: di che cosa gli sono debitore? Della vita! Dio, attraverso i miei genitori, mi ha dato la vita: è il dono più grande. E’ un dono impagabile: per quanto io faccia non potrò mai ripagare Dio (e neanche i miei genitori) per ciò che mi ha dato. Io posso essere bravo, buono, ma non basta. Le persone a volte “fanno le brave, fanno le religiose, fanno le sante” e credono così di poter andare bene a Dio, di ripagarlo. Ma detto che a Dio non interessa essere ripagato perché Lui lo fa per amore, cioè gratis, gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio, in ogni caso mai lo ripagheremo.

La vita è un dono: non si può ripagare Dio per ciò che ci ha fatto. E’ un dono: va accolto e accettato. E poi un giorno questo dono andrà restituito. La gente si arrabbia da morire (e lo si può capire visto che si muore) quando il dono viene richiesto indietro, ma non dice mai nulla sul fatto che è un dono gratuito, non dovuto, non meritato. E’ un dono che fin dall’inizio sai che non è in tuo potere: benedici, ringrazia, vivilo, assaporalo, usalo, amalo, utilizzalo, fallo fruttificare e ricordati che è solo un dono. Ed è gratuito.

Dio non ci chiede di ripagarlo ma di vivere la nostra vita. Chi vive onora il dono di Dio. La vita è un dono (debito): usalo, utilizzalo, non sprecarlo. Usandolo per creare, amare, elevare l’umanità, “saldi” il debito con Dio.

 

  1. La vita (il debito che abbiamo) è un dono da condividere con altri.

Nella vita ci succede, come a quell’uomo, è normale, che qualcuno ci sarà debitore di qualcosa. E quale sarà il tuo atteggiamento? Chiunque incontreremo sarà sempre infinitamente meno debitore di quanto noi lo siamo a Dio e alla Vita.

Vivi con tua moglie e tu devi essere paziente, attento, premuroso: lei ti è debitrice. Vivi con tuo marito e tu devi essere tenera, presente, affettiva: lui ti è debitore. Vivi con tuo figlio e tu devi esserci sempre, ti toglie il sonno, il tempo e lo spazio: ti è debitore. Vivi con i tuoi colleghi e tu devi a volte sopportare, non questionare su ogni cosa, a volte lasciar perdere, altre volte passare sopra: ti sono debitori. E via dicendo.

Ma cosa fai, a volte, con la gente? Sei spietato, cioè senza alcuna pietà, senza alcun amore. “Mi è dovuto e quindi lo voglio! Se lui non fa niente, neanch’io! Devo sempre cominciare io per primo? Ciò che è giusto, è giusto. Me lo deve e me lo prendo. Ti do quello che mi dai! Per niente, niente!”. Le persone che non sono consapevoli del “miracolo che sono”, di ciò che hanno ricevuto, ragionano sempre in termini di interesse: “E lui cosa fa? E perché lui non fa niente? Se fanno anche gli altri faccio anch’io! Visto che nessuno fa niente, perché dovrei farlo io?”. Oppure brontolano sempre: “Non c’è mai nessuno! Perché lui non fa come noi? Perché sempre io, ecc”.

Ma ti rendi conto del debito che hai verso la Vita? Puoi ripagare la Vita per il dono che ti ha fatto? Non sei esattamente nella condizione di quel debitore? La vita ti ha fatto un dono immenso, impagabile e tu, per piccoli debitucci, vuoi esser risarcito? Pensi e fai così solo perché non hai fede. Cosa dovrebbe chiederti la Vita per il dono che ti ha fatto? Ma non lo vedi, non te ne accorgi, pensi che ti sia dovuto… ma non è così.

Sei spietato perché ti sei staccato dal tuo cuore, dal saper ringraziare, dal saper benedire, perché non sei consapevole di tutto il bene e l’amore che hai ricevuto; perché non vedi tutta la bontà che ti è stata donata e tutto l’amore che ti è stato riversato. Perché chi ha amore dona amore; ma chi non ha niente, dona niente, come quel servo.

 

  1. Sono le tue emozioni o la mancanza di esse a dirigere i tuoi comportamenti.

Il vangelo di oggi fa vedere in maniera chiara come siano le emozioni a determinare i comportamenti dei vari personaggi. Le emozioni sono il nostro carburante. Senza emozioni non si va molto lontano.

Tutti noi proviamo delle emozioni: quello che succede produce delle vibrazioni dentro di noi. Non tutti poi sentono le proprie emozioni. Infatti l’e-mozione (in latino e-movere, movimento da dentro) non è il sentimento (sentire). Il sentimento è la percezione, la consapevolezza dell’emozione. Alcune persone dicono: “Io non provo nulla!”. E’ vero e non è vero: tu non provi, non senti nulla, non che non ci sia nulla dentro di te. E’ proprio questo il problema: tutti hanno emozioni. Ma cosa succede se non puoi esprimerla?

Tua madre è sempre al lavoro e tu stai con la baby-sitter. Non ci stai male, ma tu vuoi la mamma. Sei triste dentro perché ti manca. Ma sai che lavora per te, così ti tieni dentro la tristezza.

Tuo padre e tua madre litigano sempre: tu ti senti perso e senti il tuo cuore diviso in due. Ma non puoi far vedere che soffri: la situazione è già precaria e se tu fai vedere la tua sofferenza hai paura che tutto crolli.

Tua madre è sempre ammalata. Spesso è in ospedale o spesso è a letto. Tu avresti tanto bisogno di lei ma come fai a chiedere qualcosa visto che lei è messa peggio di te?

Cosa succede se non si può manifestare il proprio dolore, la propria sofferenza? Succede che te lo tieni dentro. Lo prendi e lo metti da qualche parte per non sentirlo. Così ti corazzi, diventi insensibile, impermeabile. E ti sembra di star bene, di aver superato certe cose, che certi dolori sono passati, lontani: non ti riguardano.

Tu sei femmina e nasce il tanto desiderato fratello maschio. I tuoi genitori ti vogliono bene ma il maschio è un’altra cosa! Tu lo odi questo fratello, non lo sopporti proprio. Ma non puoi mostrare la tua rabbia: subiresti le conseguenze dei genitori. Che fai? Te la tieni dentro!

Vorresti stare con il papà e giocare con lui. Ma lui ti dice sempre: “Dopo”, che vuol dire: “Mai”. Oppure: “Quando avrò tempo”, che vuol dire: “Non c’è mai tempo”. Allora tu ti arrabbi ma non puoi mostrare la tua rabbia perché se no peggiori la situazione. Che fai? Te la tieni dentro. La tua rabbia la prendi e la metti in qualche cassetto. Così questo non ti fa più problema, né male. Non ti fa più male, non perché non ti faccia male, ma perché ti sei anestetizzato per non sentirla. Hai innalzato la soglia del dolore, sei diventato più insensibile per non soffrire. Così ci si abitua a tutto.

Così ci abituiamo a non avere più emozioni; così ci abituiamo a certi modi di vivere che ci fanno morire; così ci facciamo andare bene e sopportiamo ciò che non può essere sopportato.

Ma uno insensibile ai propri sentimenti, come può sentire i sentimenti degli altri?

L’uomo del vangelo non è cattivo, è insensibile. Quando il re gli condona tutto, lui dice: “Che fortuna!”, ma il sentimento non gli tocca il cuore, rimane in superficie. Ciò che succede non lo sconvolge, non lo fa piangere di gioia; non sente cosa gli è successo. Un uomo così freddo non può che comportarsi così con il suo debitore. Un uomo senza sentimenti (cioè non in contatto) può fare di tutto perché non sente.

Le persone vogliono la felicità. Ma la felicità è la sensazione della vita che scorre dentro di noi. E’ la libertà di poter vivere tutto ciò che si incontra: la gioia, l’amore, l’estasi, la tenerezza e l’affetto ma anche il pianto è vita, anche il dolore è vita, anche la rabbia è vita, anche la tristezza è vita. Le persone vogliono vivere con passione, con intensità. Ma dimenticano che passione vuol dire sentire (pathos, sentire, patire, percepire, provare). Passione è lasciare che ogni sentimento viva in te. “C’è spazio per tutto nel mio cuore” (Etty Hillesum). Vivere la rabbia non vuol dire spaccare la faccia a qualcuno o far qualcosa: vuol dir accettare che ci sia. Perché la rabbia può ferire o farci venire la colite, l’ulcera o la gastrite, ma è anche un motore di energia. Vivere la tristezza non vuol dire “piangere il morto” o “fare le vittime” o “fustigarsi sempre”. Vuol dire accettare che nella vita ci sono delle separazioni, delle delusioni, degli abbandoni, e questo ci rattrista.

Essere vivi vuol dire lasciar vivere tutto ciò che c’è dentro perché tutto fa parte di noi.

Le persone vogliono seguire Dio. Ma pensare a Dio non vuol dire conoscerlo. Pensare ad una meringata ad un saint honoré, ad una millefoglie, non ha niente a che vedere che mangiarla.

 

Ciò che salverà il nostro mondo non sarà il progresso, né la forza, ma la capacità di sentire. Dobbiamo imparare a considerare le persone meno alla luce di ciò che fanno o dimenticano di fare, e più alla luce di ciò che soffrono (Dietrich Bonhoeffer).

Se vuoi che gli altri siano felici, pratica la compassione. Se vuoi essere felice tu, pratica la compassione. L’amore e la compassione sono necessità, non lussi. Senza di loro, l’umanità non può sopravvivere (Dalai Lama).

Levi Jakob Moreno in una poesia dice: “Un incontro di due – occhi negli occhi, volto nel volto. E quando tu sarai vicino – io coglierò i tuoi occhi – e li metterò al posto dei miei, e tu coglierai i miei occhi – e li metterai al posto dei tuoi, allora io ti guarderò coi tuoi occhi – e tu mi guarderai coi miei”.

Quando mi sento, mi rispetto e mi conosco. Quando ti sento, ti rispetto e ti conosco. E se vogliamo che i nostri figli non ripetano l’uomo del vangelo, insegniamo loro a sentire il loro mondo interiore, i loro sentimenti e la vitalità che scorre in loro. Non faranno, forse, tanti soldi, ma saranno molto felici, appassionati e conosceranno la Bellezza di Dio che vive in ogni cosa.

 

C’è una storia che racconta che due pellegrini si stavano arrampicando su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido. La tormenta stava per scatenarsi. Raffiche, schegge di ghiaccio, freddo… I due sapevano che se non avessero raggiunto in breve il rifugio sarebbero morti.

Accecati dal nevischio sentirono l’urlo di un uomo incapace di muoversi (è caduto in una voragine). Uno dei due disse: “E’ il destino. E’ condannato a morte. Muoviamoci anche noi o faremo la sua fine”. Il secondo, invece, si impietosì. Scese le pendici, lo trovò e se lo caricò sulle spalle. L’uomo con il ferito sulle spalle era finito dalla fatica ma vide da lontano le luci del rifugio. All’improvviso inciampò su qualcosa: era il compagno morto di freddo. Lui, invece, il calore del compagno e lo sforzo fisico lo avevano salvato.

 

 

Pensiero della Settimana

 

L’amore esiste di continuo.

Sono gli uomini che cambiano.