La felicità? Una possibilità!

Tutti i Santi

1/11/2017

Prima lettura: Ap 7, 2-4. 9-14     Salmo: Sal 23     Seconda lettura: 1 Gv 3, 1-3     Vangelo: Mt 5, 1-12

 

 

5,1 Vedendo le folle salì sulla montagna

Gesù non allontana le folle ma le attira sul monte. Il monte indica la condizione divina. Non è più come nell’A.T. dove c’era timore, paura di avvicinarsi a Dio. Adesso avvicinarsi a Dio fa vivere.

Letteralmente è “salì sul monte”: non uno qualunque ma sul monte, uno conosciuto, anche se non ne dice il nome. Qual è allora questo monte che tutti conoscono (“il monte”)? E’ chiaro, è il Monte Sinai, il monte che tutti conoscevano, dove Mosè salì per avere da Dio l’Alleanza con il suo popolo. Allora Gesù, come Mosè, sale sul monte per dare una Nuova Alleanza.

 

Messosi a sedere=è la posizione del Maestro che insegna. Per gli antichi i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): Gesù si siede (kathisantos=installarsi più che sedersi) cioè si mette nel posto degli dei. Gesù, che è il figlio di Dio, è dove dev’essere (seduto sopra il monte=il trono di Dio). Altissimo vuol dire: “Colui che sta sopra i monti”.

 

Gli si avvicinarono i suoi discepoli=è Gesù che attira i discepoli, le persone. Dio non è più un Dio da temere ma un Dio che attira, che attrae. Non più un Dio da cui star lontano ma un Dio da incontrare, da avvicinare. Non un Dio che ti può punire (per cui più lontano stai e meglio è) ma un Dio che vuole amarti. Un Dio che non vuole qualcosa da te ma un Dio che è lì per darti Lui qualcosa a te. Il Dio di Gesù non incute paura e se Dio incute paura allora non è quello del vangelo.

Mt dice che sono i discepoli che gli si avvicinano: Dio, con Gesù, ti è vicino, a portata di mano. Ma non era così prima (e spesso neanche oggi!).

Nella religione ebraica gli uomini potevano arrivare soltanto fino a un certo punto perché c’era tutta una categoria di persone e di meriti per poter avvicinarsi al Signore. Nel tempio di Gerusalemme c’era uno spazio dove tutti, anche i pagani, potevano entrare. Ma poi c’era una balaustra e ogni 15 metri c’era una targa in marmo scritta in tre lingue (ebraica: la lingua del popolo; greca: la lingua commerciale dell’epoca; latina: la lingua dei dominatori) che avvisava: “Chiunque (pagano) scavalca la transenna è responsabile della sua morte”. Quindi i pagani potevano arrivare fino a un certo punto. Poi le donne fino a un altro punto ancora. Poi i sacerdoti un po’ più oltre; ma soltanto il sommo sacerdote poteva entrare una volta all’anno in quella stanza dove si riteneva che ci fosse la presenza di Dio.

Quindi tra Dio e il popolo c’era un abisso. E si andava per ordine di merito: alcuni si potevano avvicinare tanto a Dio, altri per niente. Ma adesso con Gesù tutti si possono avvicinare a Dio. Tutti lo possono incontrare perché Dio non mette più barriere (meriti; purità; peccato; sacralità, ecc).

 

 5,2 Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo

Gesù proclama le otto beatitudini: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo indicava la resurrezione (“l’ottavo giorno”). Gesù infatti è resuscitato il primo giorno dopo la settimana (quindi 7-settimana + 1-il giorno dopo la settimana=8).

Allora con il numero otto Mt ci fa vedere che chi vive così vivrà per sempre, vivrà cioè una vita che non sarà interrotta dalla morte. Mentre l’osservanza dei comandamenti di Mosè assicurava lunga vita in questa terra (ma poi morivi e finivi come tutti nello Sheol), la pratica delle beatitudini assicura una vita che supera la morte. Sia la morte fisica: chi vive così, come Gesù, avrà la stessa fine di Gesù (morte e resurrezione). Sia la morte morale: chi vive così piangendo, commuovendosi, provando felicità, lottando, appassionato per una causa, amando intensamente, è così vivo che non ha la morte e neanche la paura dentro.

Le Beatitudini, nel testo greco, sono 72 parole, come i popoli pagani nel libro della Genesi. Mentre i comandamenti erano per il popolo di Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità.

 

5,3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli

Beati i poveri in spirito=la prima beatitudine, non è solo la prima, ma è la condizione di tutte le altre.

Beati-ascer, in ebraico, indica la felicità degli dei, una felicità cioè impossibile da raggiungere sulla terra. Ebbene questa felicità, dice Gesù, è qualcosa che si può già vivere adesso, sulla terra. Tu puoi essere terribilmente felice, pieno, gioioso, in pace, riconciliato già adesso, già da ora.

E chi proclama beati Gesù? I poveri in spirito. Qui c’è un problema di traduzione perché ci sono tre possibili traduzioni dell’espressione “beati i poveri in spirito”:

  1. Poveri di spirito: beati i cretini, le persone limitate, carenti (poveri, assenti) di spirito. Ma non è possibile che Gesù intenda beati i tonti!
  2. Poveri nello spirito: cioè persone che pur possedendo dei beni ne sono materialmente distaccati. Questo è smentito da Gesù perché quando incontra il ricco, non gli chiede di spogliarsi “spiritualmente” dai beni, ma materialmente e radicalmente.
  3. Poveri per lo spirito. Gesù proclama beati non quelli che la società o le situazioni hanno reso poveri (mica lo volevano loro, anzi!!!) ma quelli che liberamente, per amore, entrano in questa condizione di povertà. Ma per fare cosa? Non per aggiungersi ai tanti poveri che già ci sono e che la società ha creato, ma anzi, per eliminare le cause della povertà. Gesù non chiede di spogliarsi ma di vestire gli altri. Gesù chiede di diminuire il tuo livello di vita per permettere a quelli che ce l’hanno troppo basso di innalzarlo un po’.

Gesù cioè ci invita a condividere quello che abbiamo e quello che siamo. Non si tratta di fare elemosina (rimane uno in alto che ha e da, e uno in basso che riceve) ma di diventare fratelli. L’altro, mio fratello, ha diritto tanto quanto me.

 

Perché di essi è il regno dei cieli=Gesù usa un verbo al presente: “Felici quelli che liberamente, volontariamente, per amore, sono disposti a condividere: di essi è il regno dei cieli”. Gesù non dice “sarà” ma “è”. L’incomprensione di quest’espressione ha fatto dire una volta: “Beati i poveri perché poi andranno in Paradiso. Cioè: sopporta di qua che poi di là avrai il tuo premio”. Ma Gesù non dice questo!

“Regno dei cieli” era una forma adoperata da Mt per rispetto della sua comunità, composta da Giudei che neppure nominano il nome di Dio, per dire “Dio”. Il “cielo” è uno di questi sostituti. Così come noi diciamo “grazie al cielo”: non si ringrazia mica l’atmosfera, ma Dio.

Regno dei cieli significa regno di Dio. Ma regno di Dio non è uno spazio geografico ma l’ambito dove Dio governa i suoi. Allora Mt ci dice: “Se tu liberamente, volontariamente, per amore, ti senti responsabile della felicità degli altri, sarai felice perché permetterai a Dio, al Padre, di prendersi cura di te”.

Allora Gesù ci assicura che si può essere felici in questa esistenza. In At 20,35: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Quindi più uno dona all’altro e più uno è felice. Questa è la condizione per cui poi esistono tutte le altre beatitudini.

 

Una proposta di felicità

Nel vangelo ci sono due tipologie opposte di persone. Da una parte Gesù che dà tutto. Il discorso di addio di Gesù (cap. 13-17) si conclude con delle parole meravigliose: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. Gesù non tiene per sé quello che ha ma ci dà tutto ciò che ha: il Padre, la sua conoscenza.

Dall’altra parte c’è Giuda. Che fa Giuda? Quello che ha, che è degli altri, lo sottrae per sé (ruba dalla cassa). Ecco perché Giuda muore poi impiccandosi: chiunque ruba agli altri muore dentro.

La realizzazione della vita è donare. Tenere per sé è morire.

La festa di oggi dice: i Santi sono coloro che vivono, che la vita è fatta per donare e non per trattenere.

 

Pensiamo questa cosa nel percorso della vita.

All’inizio l’amore è dipendere. Senza la mamma siamo spacciati: “Senza di te non posso vivere; tu sei tutto; sei tutto quello che ho”. Qui l’amore è ricevere del tutto. Non si dà niente e si riceve tutto. Qui si ha bisogno di essere protetti, coccolati, accuditi e in cambio non si dà niente.

Ma cosa succede quando non si fa l’esperienza del ricevere gratuitamente? Succede che si cresce fisicamente ma non interiormente. Per cui si va dalle persone del mondo (alle quali magari dovremo dare) con il nostro bisogno insoddisfatto: “Dammi!”. L’egocentrico (adulto nel fisico, bambino nell’anima) ad ognuno dice: “Dammi!”. Se lui vuole fare (o pensa) una cosa, tutti dovrebbero fare così. E se non lo fanno, li critica.

Il volume del microfono è troppo alto solo per lui ma lui lo fa abbassare. Se lui ha freddo, mentre tutti hanno caldo, lui chiude la porta. Il pranzo sarà troppo caldo… il servizio troppo lento… quando tutto va bene, lui trova sempre qualcosa che non va… Dal suo punto di vista, gli altri non lo amano mai abbastanza… la moglie dev’essere a sua disposizione… i figli lo devono obbedire… Insomma, lui si sente al centro del mondo. Se poi subisce un torto, non è solo un torto, ma una dramma esistenziale: “Come si è permesso qualcuno di fargli un piccolo torto!? A lui!?”.

C’è una famiglia, che abita in città, che è in causa da vent’anni con la parrocchia perché le campane della chiesa disturbano il loro sonno (suonano alle otto del mattino). Non devono suonare perché loro devono dormire. Esistono solo loro: non c’è tolleranza perché al mondo ci sono solo loro.

Spesso poi il bambino che dice: “Dammi!”, assume la posizione di vittima (come i bambini che fanno il broncio, che tengono il muso). “Non mi capisci; non mi ami; non mi ascolti mai; gli altri vengono sempre prima di me; mi lasci sempre solo; nessuno mi vuole; non ho mai fortuna; gli altri non sanno quanto io soffra”. Lui vede solamente se stesso: tutto è in riferimento a sé. Gli altri non esistono: se esistono, esistono solo per quello che possono dare a lui.

 

Poi si cresce un po’ e l’amore diventa appartenere (scuola materna-elementare). Qui si da qualcosa perché si ha bisogno di essere di qualcuno, di appartenere alla propria famiglia, di non essere rifiutati, di essere accolti, di essere riconosciuti, di essere stimati. Allora: “Ti do quello che ho per ricevere quello di cui ho bisogno”.

Se ti viene chiesto di esser bravissimo a scuola per essere accettato… tu lo fai. Se ti viene chiesto di pensar male dei cugini per essere “della famiglia”… tu lo fai. Se ti viene chiesto di seguire i tuoi fratelli perché i tuoi genitori ti stimino… tu lo fai. Se ti viene chiesto di non esprimere le tue potenzialità perché disturbano… tu lo fai. Ti do (che spesso è una rinuncia a sé) quello che ho per avere la tua accoglienza e il tuo riconoscimento.

 

Poi si diventa adolescenti: qui l’amore è dare e ricevere. “Ti amo se tu mi ami; ti accetto se mi accetti; per niente, niente”. Qui l’amore diventa uno scambio, un dare-ricevere. “Tu cosa mi dai? Tu cosa fai per me? Io ti amo, ma tu mi ami? Se tu fai così, lo faccio anch’io! Lo hai fatto anche tu! Io faccio i piatti ma tu sistemi il giardino…”.

 

Ma poi si diventa grandi, adulti, e qui l’amore è creare: “Io ti do, aldilà di ciò che tu mi dai”. E’ per questo che si dà la vita a dei figli; è per questo che si dona gratuitamente e con gioia il proprio tempo ai nostri figli, agli altri, ad una causa.

Perché amare è creare: dare qualcosa di noi che fa nascere qualcos’altro. E’ solamente qui che nasce la gioia più vera, divina: vedere che il nostro amore (dare) fa nascere altra vita. Allora ci si sente realizzati e fecondi.

E’ nient’altro quello che dice questo vangelo: “La vera gioia sta nel dare, meglio nel darsi; nel creare attraverso di noi altra vita. E’ questo che ci realizza: do tutto me per far nascere e creare qualcosa. Non è più importante ciò che tu mi dai; metto me a servizio di qualcosa”.

Donarsi per qualcosa vuol dire essere utili, vuol dire che la propria vita ha un senso profondo; vuol dire che ciò che si è, è un bene per il mondo; vuol dire che si è importanti non per la fama ma per il nostro amore, per la nostra dedizione, perché il nostro essere, la nostra interiorità diventa “vita” per altri.

 

Le beatitudini infatti sono una proposta di felicità: “Vuoi essere felice? Vivi così”. Per il mondo felicità è avere, ma per Gesù felicità è essere.

Per il mondo felicità è avere cose, titoli, possedimenti, fama, gloria; per Gesù è avere relazioni vere. Per il mondo felicità è possedere; per Gesù felicità è essere liberi. Per il mondo la felicità è fuori di te: “Se avrò quella cosa; se avrò quella persona; quando sarò così, ecc”. Per Gesù è dentro di te: “Se ti libererai dai tuoi demoni… mostri, se sarai trasparente, ti conoscerai”.

Le beatitudini dicono: “Vuoi essere veramente felice, vivo?”. “Vivi così!”.

Le beatitudini infatti non sono un comando: “Devi essere così”, ma sono una scelta: “Se vuoi essere vivo dentro, sentire la Vita, l’energia che ti pulsa dentro, la felicità, vivi così”. Le beatitudini sono una via verso una vita sana sia per il corpo che per l’anima.

 

 5,3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli

Beati i poveri in spirito=il contrario della povertà in spirito è la dipendenza dalla ricchezza.

Non è la ricchezza ad essere dannosa ma il possesso. L’uomo che dipende dalla ricchezza sostituisce l’autostima, il proprio valore, con lei. Non è la sessualità ad essere pericolosa, neanche la birra e neanche la sigaretta: è la dipendenza ad esserlo.

Tua madre non è pericolosa: ma se sei dipendente a lei, sì. Tuo padre, tua moglie, i tuoi figli, il tuo capo, non sono pericolosi, ma se tu vivi per loro (cioè in funzione loro), se non riesci a starne senza, a distaccarti, se sei dipendente da quello che pensano o vogliono da te, allora non sono solo pericolosi ma mortali.

Beati i poveri in spirito: sii libero e non dipendere da niente e nessuno. Fa’ che solo Dio sia il tuo Dio. Vuoi essere sano? Vuoi essere felice? Sii libero (povero in spirito).

 

5,4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati

Beati gli afflitti=il contrario è il non saper piangere, il non sentire il dolore che si vive. Cosa succede nel tempo se tu non piangi mai? Se tu mai ti commuovi? Succede che fai la crosta, la corazza e diventi insensibile. Tu non senti più niente. E quando non senti più nulla, ammalarsi è facile.

 

5,5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra

Beati i miti=il contrario è essere duri con sé. Cosa succede se tu irrigidisci non solo il cuore ma anche i tuoi muscoli? Cosa succede se tu pretendi da te e continui a tendere i tuoi muscoli per essere qualcosa che non sei? Mal di schiena, tensioni, strappi, ecc: sei troppo duro con te.

C’è una persona che un giorno si taglia, un altro si dà il martello sulle dita, un’altra sbatte contro il mobile: perché si punisce? Perché è così dura con sé?

 

5,6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia= il contrario è vivere in superficie, senza ascoltare la “fame” di cose giuste, di passione, di “vita vera”, di profondità. Ci si trasforma in ciò che si vive. Se parli solo di materia diverrai tale.

 

5,7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia

Beati i misericordiosi= il contrario è essere spietati. Sii spietato con tutti, non guardare in faccia nessuno, giudica sempre, “taglia in due” gli altri ma non ti lamentare poi il giorno in cui ti ammali. Perché ciò che facciamo agli altri prima di tutto lo facciamo a noi.

 

5,8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio

Beati i puri di cuore= il contrario è vedere “cattive intenzioni dappertutto”. Vedi sempre il male; vedi sempre il lato negativo, la fregatura dietro ogni cosa; metti in luce l’unica cosa che non va invece di vedere il tanto positivo che c’è; vedi nemici e pericoli dappertutto… ma poi non ti chiedere perché vivi nell’ansia, nel controllo e nella paura. Ciò che si vede fuori è nient’altro ciò che c’è dentro.

 

5,9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio

Beati gli operatori di pace= il contrario è vivere nel rancore, nella rabbia, nell’odio: tieni sempre il rancore; perdona ma non dimenticare; legatela al dito; parla sempre di lui (anche dopo anni); fanne un’ossessione, e fai girare la tua vita intorno a solo quel fatto; pensaci sempre, di giorno e di notte; non lasciar andare; fai finta di non sentire il tuo dolore; vivi nella rabbia… ma non ti lamentare se poi hai un’ulcera, una colite, una gastrite, ecc. Vivere nella rabbia è il modo più esatto per essere sempre in guerra. E la guerra fa solo morti.

 

5,10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.

Beati i perseguitati per causa della giustizia…= il contrario è sentirsi perseguitati ingiustamente. “Tutti ce l’hanno con me; nessuno mi vuole; non mi ami; non mi vuoi; con tutto quello che faccio per te; tu fai tanto per gli altri e poi così sei ripagato; nessuno ti aiuta; ma cosa gli ho fatto di male!”. Vedi tutto nero, sentiti vittima del mondo, degli eventi; sentiti perseguitato ingiustamente… ma non ti chiedere poi perché sei depresso o così triste o perché le cose non cambiano mai.

Sei esattamente come quello che vedi. Le cose non cambiano mai perché tu non vuoi cambiare visione.

 

Ecco un semplice manuale per vivere felici: vivi così e la felicità abiterà la tua casa. Adesso, se ti va, vivile!

 

 

 

Pensiero della settimana

 

Per amare bisogna essere felici.

Per essere felici bisogna amare.